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TRACKSSOUNDIAMOLE ANCORA
18/10/2021
Mad Season
Wake Up
La dichiarazione d'amore di Layne Staley per l'eroina apre un disco, che rappresenta la fine di un'epoca e la pietra tombale del grunge

Mike Mc Cready è il funambolico chitarrista di una delle band di maggior successo della scena grunge. Con i suoi Pearl Jam ha firmato, infatti, due capolavori, Ten (1991) e Vs (1993) destinati a diventare pietre miliari, non solo del Seattle Sound, ma dell’intera storia del rock. Mike, però, non riesce a gestire un successo così travolgente e si fa prendere la mano dall’alcol (molto) e dall’eroina (moltissima). Cammina sull’orlo di un precipizio, Mc Cready, e sono in molti a scommettere che a breve nel cimitero dei maledetti del rock verrà piantata un’altra croce. La scimmia dell’eroina è una brutta bestia e non fa sconti a nessuno, soprattutto a coloro che sono troppo indulgenti con i propri vizi. Mike, però, è ben consigliato, è circondato da amici e probabilmente, mi permetto un briciolo di cinismo, è una risorsa troppo importante per la band di Eddie Vedder per essere abbandonata al proprio destino.

Così, sul finire del 1994, Mc Cready parte per Minneapolis ed entra in un centro per il recupero di alcolisti e tossicodipendenti. Qui, incontra un altro musicista, un bassista originario di Chicago, chiamato John Philip Saunders (The Walkabouts), e i due diventano amici. Ripulirsi, tornare alla normalità, non è affatto semplice. Ma John e Mike hanno dalla loro la passione per la musica. Così, tra una terapia e l’altra, si ritrovano nelle loro stanze a suonare e a comporre canzoni. Ai due nuovi amici, si aggiunge quasi per caso un altro enfant prodige della scena di Seattle, il cantante degli Alice In Chains, Layne Staley, che di quel centro è un affezionato ospite da tempo. Se Mike è messo male, Layne sta molto peggio, visto che di affetti ne ha davvero pochi e la droga, peraltro, gliela fornisce il padre. Staley, quindi, a Minneapolis è di casa, da quel centro entra e esce con una continuità sconcertante. Eppure, quando sta bene, di cantanti come lui, con quella voce potentissima e quel timbro inconfondibile, in circolazione ce ne sono pochissimi. 

I tre, potere della redenzione, si prendono subito in simpatia, umanamente e artisticamente, tanto che in pochi mesi decidono di dare vita a un progetto musicale. E siccome manca il batterista. Staley, che è legatissimo a un altro tossico d’antan, Mark Lanegan, leader degli Screaming Trees, si fa presentare da quest’ultimo Barrett Martin, il drummer di quella band. Il (super)gruppo con l’entrata di Martin è al completo e il quartetto si mette alacremente al lavoro. Inizialmente, si fanno chiamare, con cinica ironia, Drugs Addicts And Alcoholics (un nome, un programma) e cominciano a suonare al Crocodile Cafè di Seattle, il locale gestito dalla moglie di Peter Buck, chitarrista dei REM.  Ma quando la Colombia li mette sotto contratto e pianifica l’uscita di un disco, Mc Cready e compagni devono trovare un nome che sia più politically correct. Scelgono quindi di chiamarsi Gacey Bunch, nome che, poco prima dell’uscita dell’album, si trasforma però nel più appetibile Mad Season.

Above, viene dato alle stampe il 14 marzo del 1995, e il 1 aprile dello stesso anno è già al 24esimo posto di Billboard 200, ove permarrà per 27 settimane consecutive. Sarà il primo e ultimo disco di una band fenomenale, il cui futuro, però, è da tempo già scritto: troppi gli impegni dei musicisti con i gruppi di provenienza per durare, troppo tossico Layne Staley per reggere il peso di una doppia militanza. Nonostante il carattere di opera estemporanea, Above possiede però le stigmate del capolavoro, e soprattutto oggi, con lo sguardo distaccato di chi giudica, alla luce dei ventisei anni trascorsi, quell’epoca musicale nel suo complesso, può essere definito uno dei vertici del movimento grunge. Forse, addirittura, uno dei più belli, uno di quelli che condivide il podio della leggenda con Superfuzz Bigmuff dei Mudhoney, Ten dei Pearl Jam, Dirt degli Alice In Chains e, ovviamente, l’acclamatissimo Nevermind dei Nirvana.

Eppure, a ben ascoltare, Above non è un disco propriamente grunge. L’avventura di Seattle è ormai agli sgoccioli e si delineano in lontananza le prime fila di quel pessimo rigurgito radiofonico che porterà il nome di post grunge. Soprattutto, però, l’alfiere del movimento, Kurt Cobain, si è tolto la vita l’anno prima, mettendo fine, senza appello, ai sogni di quella generazione di belli e dannati, che prende il nome di generation X. 

Above è quindi il disco del tramonto di un’epoca, una pietra tombale, un’orazione funebre o un canto del cigno. Chiamatelo un po’ come volete, ma il senso è questo. I Mad Season sono già oltre il grunge eppure ne declamano ancora le gesta con il verbo crepuscolare e nostalgico di chi sta conoscendo la decadenza.

Una scaletta breve ma intensissima, i cui picchi memorabili sono il blues maligno di Artificial Red, in cui si compie un incestuoso amplesso fra Muddy Waters e i Black Sabbath, le abrasioni rock seventies di I’m Above, con Mark Lanegan al controcanto baritonale, Layne che ringhia rabbioso e Mc Cready che prima cita Ten e poi delizia le orecchie con un arpeggio acustico di straniante bellezza, e il jazz sfocato e sonnambulo dell’immensa Long Gone Day, in cui le voci di Lanegan e Staley si fondono in un abbraccio di sulfurea intensità. Il contorno a questi capolavori è comunque di ottima qualità (a parte l’inconcludente finale di All Alone), e un singolo a presa facile come River Of Deceit regalerà alla band non poche soddisfazioni anche in termini commerciali.

E poi, c’è lei, Wake Up, canzone che apre il disco e suggerisce il senso di tragedia (artistica) imminente che permea l’intero disco. Layne, mai così intenso, recita la propria dichiarazione d’amore all’eroina: “Sveglia giovane uomo, è tempo di svegliarsi, la tua storia d’amore deve andare avanti, da dieci anni, da dieci lunghi anni”. La dipendenza come una lunga storia d’amore, dalla quale è impossibile retrocedere, nonostante la consapevolezza che quella dell’eroina è una strada che porta dritta all’inferno (“Il lento suicidio non è la via, il lento suicidio non è la via da percorrere”).

L’incedere del brano è lento e avvolto da una nebbia ipnagogica, ma presto accelera, conducendo i languori agrodolci dell’inizio verso il torrido climax centrale che rimastica antiche scorie grunge e sublima per l’ultima volta la gloria che fu.  

Il testo premonitore è solo uno dei tanti in cui Staley affronta i fantasmi della propria dipendenza e la sua intrinseca debolezza: da un lato, la volontà di vivere, dall’altro, l’incapacità di essere abbastanza forte per farlo. Un tormento che lo accompagnerà per gli anni a venire, fino a quel 5 aprile 2002, quando un’ultima dose di eroina mise fine alle sue sofferenze, spingendolo verso un sonno eterno dal quale non si risveglierà mai.