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REVIEWSLE RECENSIONI
29/01/2024
The Smile
Wall Of Eyes
"Wall of Eyes" mostra i The Smile al loro meglio, con dei picchi costanti e altissimi di suono, scrittura e coinvolgimento, in alcuni momenti di assoluto miracolo. Thom Yorke, il genio Jonny Greenwood e Tom Skinner, assieme a Sam Petts-Davies, realizzano un piccolo capolavoro: indossate le cuffie e prendete parte a questo viaggio sonoro.

L’emozione di premere play. Sapete cosa significhi, vero? Ve lo auguro di aver provato una sensazione del genere: l’aspettativa, la possibilità concreta di essere investiti da qualcosa di nuovo, con la capacità di poter cambiare qualcosa nel nostro futuro.

Se ci penso, i Radiohead sono gli ultimi ad avermi dato questa spinta. Lo fecero con OK Computer in un senso e lo rifecero subito dopo ma con un disco dalle forme totalmente opposte rispetto al predecessore da risultare per un po’ incomprensibile nella sua totalità: Kid A. La possibilità di vedere il futuro, non toccare proprio lui, ma gli ingredienti da cui sarà composto. E fu una cosa ancora più grande perché era un’emozione che includeva il coinvolgimento, c’eravamo noi tra le carte in tavola. Io pensai che in un’ipotetica fine del mondo avrei dovuto trovare la maniera di salvare quei suoni, quei segnali. E renderli eterni.

E oggi non stiamo parlando di Radiohead, è vero, perché i The Smile sono qualcos’altro. Eppure ci sono due delle loro menti creative, quindi è lecito aspettarsi qualcosa di importante.

 

I The Smile sono un trio britannico formato da Thom Yorke, voce e tanto altro dei Radiohead, Jonny Greenwood, chitarrista, inventore di suoni, arrangiatore e quant'altro, il genio degli ultimi trent’anni, prestato alla musica alternativa, al brit pop, al rock, alle chitarre che suonano come mai avresti pensato, ai synth che nebulizzano questi contesti sonori in una maniera che definire epocale mi sembra ancora riduttivo. È il silenzio prima dello squarcio geniale, nascosto da quel sipario di capelli laterali e lunghi, utili forse a metterlo ancora più a proprio agio e nascosto in quel silenzio. E poi c’è Tom Skinner, batterista e compositore dei Sons Of Kemet. Al trio si aggiunge il produttore Sam Petts-Davies, già al lavoro nell'ambito dei nostri con A Moon Shaped Pool e con Rajasthan, lavoro solista di Greenwood.

Il risultato del trio, nato durante il periodo pandemico (in quel caso accompagnato da Nigel Godrich, produttore ed ingegnere del suono dei Radiohead), è stato A Light for Attracting Attention, bellissimo e sorprendente esordio discografico datato 2022. Tanto dei Radiohead (non poteva essere altrimenti), tanta libertà ritmica, finezze e soprattutto tante divagazioni sublimi in grado di accarezzare il mondo elettrico e garage/pulp tanto quanto quello sintetico e profondo. Il tutto senza mai sforare nell’esercizio di stile; voglia di fare e di esserci, gusto nella scrittura, niente di gettato al caso. Certo, è qualcosa che può anche risultare ostico, in questi casi di piena libertà, ma personalmente è il mondo che preferisco: le sorprese, per tutti, con effetti opposti.

 

Quindi premo play su questa seconda fatica, Wall of Eyes, e lo faccio un po’ in anticipo rispetto al resto del mondo. Ed eccoci.

Una percussione brasiliana, forse un surdo, una cassa da suonare a mano che accompagna una chitarra acustica che non tradisce le proprie origini britanniche nell’andamento pop. Thom c’è ed entra subito, siamo lì, per chi conosce i Radiohead, in qualcosa che trovi da qualche parte di In Rainbows. Poi comincia a suonare il mondo intorno, di sporcizia che satura i colpi sulla pelle del surdo, entri nel grigio e poi negli archi della London Contemporary Orchestra, elemento consueto nei loro feat.

La dissonanza armonica di questo brano è evidente e la cosa che mi sorprende è quanto sia ammaestrata ritmicamente, dosata nei passaggi tra freschezza e tensione emotiva, mai in battere sul primo movimento del cambio di battuta ma sempre un po’ dopo, cerco di capirlo, cambia sul tre. E ora che l’ho capito? Amen. È una scelta matematica che trascina lo spostamento emotivo, diventa l’elettrocardiogramma di Wall of Eyes, prima traccia ed omonima title track. Tesa senza essere dissonante, sporca senza essere totalmente digitale. Il dosaggio sonoro è sublime. Una scelta difficile come apertura del disco.

 

"Teleharmonic" è la traccia numero due e sembra piantare le radici nei suoni che arieggiano oggi quando allunghi le orecchie distrattamente nelle playlist altrui. È roba che funziona, come fa quel suono elettronico, morbido ma meccanico che comincia il brano. Sono i reverberi lunghi che forse ho sentito quest’anno in Sufjan Stevens o anche in qualcosa di più azzardato, come i Perfume Genius di Too Birght, per intendersi, cose che hanno avuto bisogno di tempo per conquistarmi. Queste code lunghe sulla voce di Yorke paiono invece avere lo scopo di farci piacere delle cose appena più mondane, che sulle spalle altrui non acquistano così tanta bellezza. Un’opera di valorizzazione del presente, in cui i nostri si infilano donandole istantaneamente una sacrale immortalità.

Le pelli delle percussioni vive contrastate dal rimshot continuano il discorso ritmico cominciato nel primo brano, lasciandoci con un flebile contatto naturale in mezzo ai diversi elementi sintetici che non sembrano però rendersi conto della loro grandezza. Il punto più alto della canzone è un’apertura di piatti, chiavi, frequenze alte che vibrano e vanno ad aprire per la prima volta totalmente lo spettro sonoro, come se il disco finora fosse stato ingabbiato. Penso a Van Dyke Parks, alle sue parole di "Surf’s Up" e a quella maniera unica di risvegliarci in un suono aristocratico: "Hung velvet overtaken me_Dim chandelier awaken me_To a song dissolved in the dawn". Finito il momento cristallino e meraviglioso, in cui spicca un basso plettrato che riesce ad essere trascinante e protagonista nonostante la sua posizione gregaria, torniamo in balia del suono meccanico e morbido, nonché dei reverberi lunghi che adesso sembrano veli su cui poggiare il pensiero. "Teleharmonic" finisce ed è un punto altissimo.

 

"Read the Room" ha un sapore più elettrico, sporco, a cui va aggiunta la scrittura meno libera e più organizzata tipica dei tempi storti figli del post rock e degli intrecci chitarristici anni novanta. Una canzone manifesto delle origini. Ciò nonostante, si riesce a respirare libertà, specialmente nella metà della canzone prima di entrare nella coda, degna chiusura che si tiene stretta l’ispirazione più contorta senza mollare l’aria che ormai abbiamo assaporato nei primi due episodi e di cui subiamo ancora l’effetto.

"Under Our Pillows" sembra voler mettere un punto sul centro espressivo dell’album, confermando l’aspetto più incatenato e scritto del post rock di cui prima. Le chitarre ossessive e i loro accenti sincopati continuamente rimarcati non sono esattamente una mia passione, o comunque non sono esente da quello che è il loro chiaro effetto. Non sono rilassanti, sono impulsi di tensione e quello mi arriva. Viceversa, giovo ancora di più di quella rilassatezza in cui trascina la seguente sezione più dritta e piena di respiro. Una sorta di omaggio sottile a quegli slanci di emozioni in cui ti gettava la coda di "Bodysnatchers", per andare dritti alla questione, o lo stesso punto di "Jigsaw Falling Into Place", giusto per rievocare una delle cose più alte di Radioheadiana memoria, quel In Rainbows che mi aveva fatto pensare (e del resto riesce a farlo ancora oggi) che esistesse una fusione possibile tra i due scalini evolutivi in cui ci avevano gettato con OK Computer e Kid A.

Non faccio in tempo a rimpiangere che subito un momento sonoro supremo mi prende e vi assicuro che lo farà anche con voi. Quelle chitarre ostinate, che mi immagino (con un velo di amorevole critica) messe a forza da Thom Yorke, perdono ragionevolmente peso in favore di una lunga sequenza sonora che non può non essere frutto del genio di Greenwood. Siamo nello spazio orchestrale e sintetico di 2001:Odissea nello spazio, e mi scuso per la ripetizione. Il tempo ci prende per mano e vi garantisco che smetterete di fare ciò che starete facendo perché questo momento sonoro è pura devozione verso il prossimo, cura, amore per il particolare, per l’emozione data e subita. Sono due minuti, non lo so, forse più. E non poteva che finire con un taglio netto. Questa è musica contemporanea.

 

Trovo la forza di ascoltare "Friend of a Friend" come se nulla fosse, come se non avessi appena ascoltato un miracolo. Un basso piccolo, che me lo immagino scala corta, suono tondo, scuro, corde lisce per minimizzare l’effetto ferroso dell’attrito delle dita. Fatto sta che questo brano che si presenta basso e voce, e che viene educatamente raggiunto da un pianoforte ed una batteria, fa il suo corso con un discreto picco emotivo nella prima metà per un movimento sonoro, salvo vederlo esaurire per tornare nella canzone più standard e priva di grosse sorprese. Una cosa scritta, che forse avrà bisogno di maggiori ascolti per entrare dentro.

La London Contemporary Orchestra fa il suo avvento a metà canzone e arricchisce (grazie soprattutto al contributo di scrittura e arrangiamento di alto livello di Greenwood) ma il brano, nonostante il crescendo di memoria Sgt. Pepper (e intendo chiaramente della traccia "A Day in the Life"), non arriva del tutto. Non posso attaccarmi emotivamente a della roba scritta "semplicemente" benissimo dopo i picchi emotivi toccati prima. Davvero impossibile. Una bella canzone, ma mi sembra letteralmente di non averne bisogno.

 

Che la musica sia emozione istantanea, sonora, indipendentemente da ciò che è scritto, mi arriva e me lo leggo tatuato addosso mentre mi godo lo scorrere di "I Quit", successiva traccia del disco. Basata sull’effetto del delay sulla chitarra, ricalcata dai fusti di batteria, il tutto messo nero su bianco da un effetto di piccolo reverbero devastato ogni inizio battuta, uno di quegli ingredienti che mi potrebbero fare impazzire. Il piano semplice stavolta sembra inserito in un contesto esatto, così come il basso robusto. La melodia di Thom è giusta, necessaria. Arrivano un paio di contributi di archi dissonanti che tentano di spezzare il flusso e non capisco se l’effetto sia una cosa positiva o meno, fatto sta che "I Quit" si posiziona sul podio delle cose più belle. Il suono, signori e signore, è da premiare, è parte integrante dell’evoluzione produttiva del disco, è un ingrediente che rende questo trio un quartetto.

 

L’atmosfera di "Bending Hectic", uno dei tre singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album ma che ancora non avevo sentito, fa tutto da sé: una lunga introduzione di frammenti, di predisposizione a qualcosa in arrivo; una chitarra in continuo arpeggio e alla ricerca di un’accordatura che a fine di ogni giro, state tranquilli, arriverà, in diretta. Rumori batteristici, un basso che gioca a nascondino, archi belli e spietati, stavolta in un’armonia perfetta e senza distrazioni o impacchettamenti del caso, come mi era capitato di recepire su "Friend of a Friend". Thom c’è. "No one’s gonna bring me down, no_ No way and no how".

Tutto torna in mano agli archi e alla loro capacità di renderci tesi o rilassarci. Scelgono la prima, ma è solo un antipasto. Parte un fuzz distruttivo, una coda trascinante e senza fronzoli, un momento da testa in giù e capelli a coprire l’espressione del viso, almeno nel caso di Greenwood.

 

Potrebbe finire qui. Ed ecco che la partenza di "You Know Me" sembra aver capito il sentimento. Perché c’è altro, è vero, ma allo stesso tempo non c’è alcuna intenzione di stupire con ulteriori squarci. Accordi di piano larghi ed in quarti, voce delicata, fusti di batteria, mallet che arrotondano il suono. Ed archi che arrivano in questo cerchio magico, stando bene attenti a non distrarci, o almeno questo è quello che di nascosto spero. Sono un po’ troppo puliti nel suono e nel fraseggio, impossibile non renderli protagonisti. Il momento passa, resto incolume, la coda torna al suo sapore iniziale con l’aggiunta di questo grigio, dato proprio dallo strascico degli archi che ci fa ritrovare alla fine di questa marcia di congedo nel fido grigiore da cui siamo partiti. Siamo proprio in fondo.

 

È stato uno strano viaggio. Dei picchi costanti e altissimi di suono, scrittura, coinvolgimento. Una presenza palpabile dell’animo di chi suona e registra che va di pari passo con quella pressoché totale di chi ascolta. Ci sono dei momenti che rapiscono, altri che distraggono appena, arrivando in un paio di isolate situazioni a sfiorare una piccola noia. Eppure ciò che accade in "Teleharmonic", sulla coda di "Under Our Pillows", su "I Quit" e su "Bending Hectic" merita non tanto di essere sottolineato, figuriamoci, è che sono arrivati talmente oltre in quei punti, da dovere, voi, disimpegnarvi da ogni altra cosa, prendervi del tempo, buone cuffie e via. Grazie ai The Smile pare davvero troppo facile poter arrivare altrove.