Lo so, è un discorso vecchio ma finché rimane attuale è giusto tirarlo fuori, chissà mai che cambi qualcosa, prima o poi: l’Italia è quel paese dove Springsteen riempie San Siro per due sere, gli Ac/Dc, i Guns ‘n Roses e altri simili residuati bellici ammassano gente nei lager a cielo aperto di Imola e Firenze Rocks, e poi ti trovi una manifestazione come il Comfort Festival, in un luogo confortevole (appunto), a due passi da Milano, e se si arriva a mille persone è già tanto.
Attenzione, non è stato un flop: ieri sera, giornata inaugurale, ad occhio e croce era pieno; il problema sta piuttosto nel ridimensionamento delle aspettative. Cosa ha da invidiare Warren Haynes, in quanto a qualità e intensità di live show, a Bruce Springsteen e alla E Street Band? E Ana Popovic, che colpevolmente non conoscevo, ha messo su un concerto per cui qualunque persona che si definisse appassionata di rock si sarebbe strappata i capelli. Eppure, per tutto questo ben di Dio si piazzano delle sedie sotto a un palco di medie dimensioni e ci si prepara già ad un’affluenza da club.
Che cosa voglio dire, con questo? In primo luogo che ancora una volta dobbiamo ringraziare Claudio Trotta e la sua Barley Arts perché, se portare certi nomi ormai garantisce entrate a prescindere, una cosa come il Comfort (che è giunto alla seconda edizione ma che l’anno scorso si era tenuto alla Nuova Darsena di Ferrara) invece è altamente rischiosa e può essere realizzata solo da grandi appassionati di musica, che ci tengono a farci vedere certi artisti e sono disposti a scommettere sulle incognite dell’esito.
Ma, è sempre qui il problema, se in Italia ci fossero davvero appassionati di musica e non inseguitori dell’hype a tutti i costi, bisognerebbe affittare San Siro anche per Warren Haynes (ok, sto esagerando, dopotutto anche in America suona in posti più piccoli rispetto a Springsteen ma avete capito il concetto). Ringraziamo dunque Claudio Trotta e tutti quei pochi promoter che ancora provano ad uscire dai soliti schemi, e speriamo che ci sia sempre quel poco di pubblico da rendere possibile certi eventi.
La location, dicevamo: il parco di Villa Casati Stampa a Cinisello Balsamo, con il palco montato sul retro dell’edificio, che durante le esibizioni ha allietato i presenti con suggestivi giochi di luce; l’area è stata attrezzata con stand gastronomici (non li ho utilizzati quindi non ho verificato i prezzi, ma confermo niente Token) e bancarelle varie, compresa una di vinili e cd. L’area è stata allestita con posti a sedere e, data la capienza ridotta, anche chi si fosse trovato in ultima fila avrebbe potuto godere di un’ottima visuale. Aggiungiamoci l’ottima resa sonora e potremmo concludere qui dicendo che i concerti negli spazi enormi dovremmo lasciarli a chi vuole una serata di karaoke, non certo a chi ama la musica dal vivo.
Si parte alle 18.30 spaccate con Bette Smith, originaria di New York, con all’attivo tre dischi di cui l’ultimo, Goodthing, uscito esattamente un anno fa. Il caldo è ancora mostruoso, la maggior parte delle sedie sono al sole, così che i pochi presenti sono costretti a cercare rifugio nelle retrovie, dove sono state allestite alcune zone d’ombra. Il risultato è che, sebbene lei e la sua band ce la mettano tutta per scuotere il pubblico, la partecipazione rimane per lo più passiva. Oltretutto fa caldo anche sul palco, lei stessa ci scherza sopra e finirà a cantare una manciata di pezzi attaccata al ventilatore. Ciononostante, nei 45 minuti a loro disposizione, il gruppo compie egregiamente il suo dovere, attraverso una miscela di Rock e Black Music che si avvale di brani tutto sommato scontati ma che risulta davvero irresistibile dal punto di vista dell’impatto. Vista in altre condizioni climatiche sarebbe stata anche meglio ma anche così è stato un ottimo modo per iniziare.
Quando sale sul palco Ana Popovic il sole si è notevolmente abbassato e il caldo è di conseguenza più sopportabile. Non seguo molto la scena cosiddetta “roots” per cui, faccio mea culpa, non conoscevo affatto la chitarrista serba, che pure è in giro dalla fine degli anni Novanta e ha dalla sua una discografia consistente (dal palco ha annunciato che il suo prossimo lavoro, il successore di Power, uscirà nel settembre del 2026).
Il suo è un Rock dalle forti venature Blues e, anche qui, le canzoni, almeno ad un primo ascolto, mi sono sembrate piuttosto ordinarie, senza particolari sussulti. La differenza la fa piuttosto una band stellare, composta per tre quinti da italiani (Ana si avvale di diversi organici, che ruota a seconda del paese in cui si esibisce): Michele Papadia alle tastiere, che suona con lei da vent’anni, Davide Ghidoni alla tromba e Claudio Giovagnoli al sassofono. Completano la formazione il batterista Jeremy Thomas e il bassista Buthel Burns, provenienti rispettivamente da Oklahoma e Texas. Insieme danno vita ad una performance esplosiva, dall’impatto assolutamente travolgente, impreziosendo i brani con soli e improvvisazioni da lasciare del tutto senza fiato. Ana tiene il palco con sicurezza, la voce non è esente da sbavature ma il tocco sulla chitarra è prodigioso, gli assoli che tira fuori sono magnifici, e quando il suo strumento interagisce con la sezione fiati non ce n’è davvero per nessuno.
Il set include sia cose dal forte impatto come “Rise Up” o “Queen of the Pack”, dove la carica della singer e le melodie anthemiche la fanno da padrone, sia virate sul Blues come “Brand New Man” e momenti di grande virtuosismo, come nella strepitosa versione di “New Coat of Paint” di Tom Waits (proveniente dal primissimo periodo del cantautore californiano, quello più influenzato dal Jazz) sulla quale ogni membro del gruppo si ritaglia il suo personale momento di gloria.
Sono stati ottanta minuti di livello altissimo, direi che non me la farò mancare la prossima volta che verrà a trovarci.
È abbastanza difficile dire quale sia il miglior Warren Haynes, se quello dei Gov’t Mule oppure il titolare della sua band solista. La verità è che sono entrambi strepitosi, probabilmente ogni tentativo di operare un confronto cadrebbe nel vuoto. Di sicuro, anche quando gira col suo gruppo, il livello dei musicisti è stellare: Kevin Scott (basso), Matt Slocum (tastiere), Terence Higgins (batteria) e Greg Osby (sax) compongono la line up migliore che si possa desiderare, tanto che il concerto non è, come ci si potrebbe aspettare, incentrato sulla chitarra, ma si gioca tutto sull’interazione tra i cinque, che salgono in cattedra a turno, a seconda del momento. Slocum, da questo punto di vista, è quasi più presente di Haynes nel suo ruolo da solista, mentre Kevin Scott si rivela un autentico mattatore, le sue linee di basso marchiano a fuoco tutti i brani in scaletta e, unite al drumming magistrale di Higgins, compongono una sezione ritmica che non fa prigionieri. Greg Osby risulta inizialmente più defilato, limitandosi ai contrappunti, ma quando gli viene lasciato spazio sa incantare a dovere: su “Terrified”, soprattutto, il suo assolo è da capogiro.
Il chitarrista di Asheville, North Carolina, è qui per presentare la sua ultima fatica, l’ottimo Million Voices Whisper, uscito a novembre: nella scaletta di stasera trovano spazio una manciata di brani, tra cui “Go Down Swinging” e l’intensa ballata “This Life As We Know It”, che si affiancano ai cavalli di battaglia del repertorio solista di Haynes, tra cui “River’s Gonna Rise” e “Fire in the Kitchen” e una strepitosa “Invisible”, mentre il boato del pubblico accoglie classici dei Gov’t Mule come “Banks of the Deep End” e “Thorazine Shuffle”, durante la quale il gruppo si dilata a dismisura mettendo in mostra tutto il suo valore. I Muli erano stati protagonisti anche all’inizio, quando dopo una breve intro strumentale i sei si erano lanciati in una roboante versione di “Tear Me Down”, che ha sostituito a sorpresa “Man in Motion”, di solito la più gettonata nel ruolo di opener (e questa sera, ahimè del tutto assente).
Il chitarrista è in formissima anche a livello vocale e lo fa capire soprattutto nell’ultima parte del concerto, quando si vira maggiormente verso il Blues. Viene omaggiata anche l’Allman Brothers Band, nella quale Haynes ha militato per tredici anni, fino allo scioglimento: “Instrumental Illness” è un altro momento di altissima ispirazione, uno di quelli che da solo giustificherebbe il prezzo del biglietto e che fa capire che razza di roba irreale sia questa band quando è lanciata a mille.
Finale, ovviamente, tutto per “Soulshine”, apparsa in origine su Where It All Begins dell’Allman Brothers Band ma in seguito divenuto cavallo di battaglia irrinunciabile sia per i Gov’t Mule sia per il Warren Haynes solista. Ed è proprio la sua melodia liberatoria l’ideale per congedarsi, non senza un po’ di malinconia, da due ore di livello assoluto, in quello che sarà senza dubbio ricordato come uno dei più bei concerti degli ultimi anni.
Passate al Comfort Festival nelle prossime sere: darete finalmente un senso alla frase “ascoltare musica dal vivo”.