È da una decina di anni – sostanzialmente dall’uscita di Southeastern – che a Jason Isbell è stata consegnata la patente di “miglior cantautore della sua generazione”. Titolo assolutamente meritato, dal momento che, a livello di songwriting, Isbell si è dimostrato un cavallo di razza sin dagli esordi con i Drive-By Trickers ormai vent’anni fa, firmando i brani migliori di album ormai entrati nella storia del genere Americana come Decoration Day e The Dirty Sound. Una volta avviata la carriera solista, dopo un periodo di assestamento e di difficoltà dovute all’alcolismo, Jason ha trovato la sua voce, inanellando un filotto di album perfetti come Southeastern, Something More Than Free e The Nashville Sound. Giunto all’altezza di Reunions, però, come il recente documentario Running with Our Eyes Closed ha mostrato, Isbell ha sentito addosso per la prima volta la pressione delle aspettative di fan e critica. Per uno che spesso sente la sua capacità di scrittura più come un fardello che come un dono, è facile che l’idea di scendere anche minimamente al di sotto dell’eccellenza non sia neanche da prendere in considerazione.
Nonostante il risultato sia stato l’ennesimo album eccellente in una discografia inattaccabile, Jason Isbell ha molto sofferto la lavorazione di Reunions, esperienza resa ulteriormente più difficile da una pubblicazione avvenuta in piena pandemia. Ecco quindi che per Weathervanes Isbell ha deciso di cambiare formula: nessun radicale stravolgimento, sia chiaro, quanto piuttosto il desiderio di non percorrere sentieri già battuti in passato. Ecco quindi spiegata l’assenza del produttore Dave Cobb, con cui aveva lavorato da Southeastern in poi. Dopo aver fatto le prove generali prima con Fever Breaks di Josh Ritter e poi con il disco di cover Georgia Blue, Jason si è sentito pronto per svolgere il compito in prima persona, facendosi aiutare da Matt Pence in una manciata di tracce e decidendo di registrare ai Blackbird Studios di Nashville dopo aver utilizzato per anni il glorioso RCA Studio A.
Non è un segreto che durante le sessioni di registrazione di Reunions, l’ansia e la preoccupazione abbiano scatenato un conflitto coniugale (risolto) tra Isbell e la moglie Amanda Shires, cantautrice (suo il bellissimo Take it Like a Man dello scorso anno) e occasionalmente membro della band di Isbell, i The 400 Unit. Shires da mesi non è presente ai concerti del marito e qui è accreditata “solo” come guest star, alla pari del leggendario armonicista Mickey Raphael, veterano della Family di Willie Nelson.
Questi rilevanti cambiamenti hanno portato a una leggera ma sostanziale modifica nella proposta musicale di Jason Isbell. Album come Something More Than Free e The Nashville Sound erano sì il risultato del lavoro di un ristretto gruppo di musicisti in studio, ma il loro sound era più quello di un cantautore rock piuttosto che quello di una rock band. In Weathervanes, invece, ha deciso di dare maggiore enfasi alla performance, mettendo in primo piano l’interplay tra i membri dei The 400 Unit piuttosto che la canzone in sé. Per cui se si è alla ricerca del disco giusto per capire quanto siano straordinari i musicisti che lo accompagnano – il tastierista Derry deBorja, il batterista Chad Gamble, il bassista Jimbo Hart e il chitarrista Sadler Vaden –, ecco allora che Weathervanes svolge il suo compito alla perfezione, per certi versi meglio del recente Live from the Ryman. Aiuta anche il fatto che Isbell abbia redatto la tracklist come fosse un concerto: si parte con il riff in minore di “Death Wish”, vengono alternati sapientemente momenti acustici ad altri più elettrici, si conclude il set principale sulle note riflessive di “White Beretta” (tanto che non è difficile immaginarsi la band nell’atto di lasciare il palco una volta finta la canzone) e si chiude con due lunge jam: “This Ain’t It”, che ricorda i Rolling Stones di Sticky Fingers, e “Miles”, che a un certo punto vede Isbell e Vaden impegnati in un duello all’ultimo assolo.
Tom Petty, parlando della sua band, gli Heartbreakers, floridiani trapiantati in California, una volta ha detto: «Non puoi suonare così se non vieni dal Sud». Lo stesso si può dire dei The 400 Unit, musicisti che da anni vivono e lavorano a Nashville ma che provengono tutti dall’Alabama, come Isbell. E questo essere figli di due mondi – il blues dell’Alabama, da dove tutto nasce, e la sua evoluzione bianca, prima il Country e poi il Rock – è la vera arma segreta della band, che è in grado di spaziare tra i generi come poche altre. Ecco quindi che di volta in volta i The 400 Unit flirtano con il soul alla Van Morrison (“Middle of the Morning”), richiamano in vita l’amico John Prine (“Volounteer”), riesumano il suono ruspante dei Crazy Horse e lo ibridano con quello della Allman Brothers Band (“Miles”) e ripercorrono filologicamente le varie ere musicali di Tom Petty (uno degli eroi di Jason): in “When We Were Close” siamo nei primi anni Ottanta, all’altezza di Hard Promises (gli inserti di organo sono puro Benmont Tench), in “Save the World” la reference sonora è Long After Dark (anche se l’attacco di sintetizzatore non può non ricordare anche “Eminence Front” degli Who), “Strawberry Woman” sembra uscita da Wildflowers, mentre “King of Oklahoma” potrebbe venire scambiata per una outtake degli Heartbreakers prodotti da Rick Rubin, tra She’s the One ed Echo.
Come sempre quando si parla di Jason Isbell, non bisogna dimenticare il fatto che sia un paroliere fenomenale, una rockstar che non ha dimenticato da dove viene e che vive con un occhio attento e ricettivo ai piccoli dettagli della vita della gente comune. Il risultato sono canzoni mai banali, che rifuggono lo slogan facile e populista in favore dell’osservazione del particolare elevato all’universale. Ecco quindi che “Death Wish” parla di depressione senza scivolare nel pietismo, ma privilegiando l’empatia; che “Middle of the Morning” descrive l’angoscia provocata dalla noia del lockdown, ma lo fa con intelligenza e un pizzico di ironia; che in “Miles” si racconta di famiglie disfunzionali; che in “King of Oklahoma” al centro della vicenda c’è un uomo travolto dalle sue dipendenze; che in “Cast Iron Skillet” Isbell riesamina la sua educazione di uomo del Sud; e che in “Save the World” si affronta il purtroppo sempre attuale tema delle sparatorie nelle scuole, raccontando gli effetti del disturbo da stress post-traumatico (« Palloncini che scoppiano al supermercato, il cuore che mi salta in petto, mi guardo attorno per trovare la porta d’uscita, quale sia la strada migliore per andarmene da qui»).
Non era facile dare un seguito a un filotto di quattro album praticamente perfetti pubblicati nel giro di appena dieci anni. Con Weathervanes Jason Isbell invece ci riesce e rilancia, perché il risultato è forse il suo disco migliore, senza dubbio il più completo e quello che esprime pienamente il potenziale di uno scrittore sopraffino come Isbell e di una band stellare con i The 400 Unit. Quale sia il loro segreto, è tanto semplice da svelare quanto difficile da mettere in pratica. Ci vogliono grandi canzoni e una band capace di dare loro il vestito giusto, in grado di attuare una sintesi che trasformi il passato in qualcosa sì di familiare ma allo stesso tempo di mai sentito prima. Tutto questo è presente in Weathervanes, un album che conferma Jason Isbell come una delle voci più importanti del rock americano e i The 400 Unit come una della migliori band in circolazione.