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REVIEWSLE RECENSIONI
28/01/2019
Juliana Hatfield
Weird
In piena maturità artistica, Juliana Hatfield continua a incarnare l'archetipo dell'indie-rock statunitense al femminile e pubblica una manciata di canzoni per raccontare il mondo dal punto di vista di chi sceglie la solitudine.

Con Juliana Hatfield c’eravamo lasciati solo qualche mese fa quando l’abbiamo vista e sentita cantare una versione aumentata di grinta e fascino di “Physical” di Olivia Newton-John. Le operazioni di espansione di certe canzonette con rigogliose quanto intelligenti mandate di rock sono sempre piacevoli all’ascolto e la nostra songwriter, prestata in quel caso eccezionale all’interpretariato musicale, ha avuto abbondanza di materiale per riempire un intero tributo a 33 giri all’attrice protagonista di Grease che, peraltro, è riconducibile a uno dei suoi primi ascolti formativi.

In realtà, limitare la conoscenza di Juliana Hatfield a questo episodio o per il suo ruolo aggiuntivo nei Lemonheads o a fianco di Matthew Caws dei Nada Surf è riduttivo. La cantautrice nativa del Maine e cresciuta a Boston, che fa cinquantadue anni a luglio, ha una carriera di tutto rispetto e pubblica dischi di qualità almeno dall’87, il tutto con una continuità invidiabile tanto che “Weird”, l’ultimo album fresco di stampa, risulta essere addirittura il suo diciassettesimo lavoro in studio al netto delle collaborazioni.

L’indie-rock di Juliana Hatfield è scarno ma così potente da essere oltremodo efficace. “Weird” si caratterizza per chitarre dai riff espliciti che, come la voce, seguono i comandi di un interruttore che ne accende il timbro graffiante o ne spegne la grinta con la facilità di uno di quegli overdrive a pedale che usano gli amanti della sei corde più sfrontata. Un dualismo stemperato dai contenuti dei testi che vanno ad approfondire la vita come la conosciamo e come Juliana Hatfield sa raccontarci, in tutte le sue sfumature.

E l’aspetto paradossale è che, in questo dialogo elettrico con l’ascoltatore, la cantautrice americana parte da un raggio più che circoscritto. Stare bene in uno spazio ridotto è l’approccio creativo di Juliana Hatfield e il sogno proibito del genere umano nella contemporaneità imposta dalla rete e beata lei che, come canta in “Do It to Music”, riesce persino a bloccare il mondo con la musica, da sola e con un paio di cuffie. A chi non piacerebbe?

La silhouette di donna disegnata in copertina che proietta la sua ombra dietro di sé e verso di noi rende perfettamente il senso in cui va ascoltato il disco. C’è un intero sistema che cose come suonare il rock e essere di mezza età come Juliana Hatfield ci consentono di re-interpretare senza nemmeno mettere più il naso fuori di casa. Il senso di tutto ciò è che se non ti piace la realtà basta trascenderla in scioltezza, una procedura di cui la cantante stessa ci rivela l’how-to-do in “Lost Ship”, passo dopo passo: chiudere la porta, spegnere le luci, sdraiarsi e proiettarsi lungo un volo radente sul proprio oceano privato. Diventare senza peso, a tenuta stagna e vuoti, per posizionarsi agevolmente dove si sceglie di stare e guardare solo ciò che si vuole.

Ma non crediate che “Weird” non sia un disco che lascia indifferenti. Il rock resta comunque un mezzo di coinvolgimento che non ha eguali, soprattutto se gli artisti come Juliana Hatfield riescono a maneggiarlo con perizia. Da un punto di vista meramente stilistico, delle undici tracce del disco non ce n’è nemmeno una che si sieda ritmicamente o che instilli il tarlo della ripetitività armonica. All’incipit tipicamente indie-rock di “Staying in”, “It’s so Weird” e “Sugar” si alternano episodi dalle venature garage con le splendida tirata di “Everything’s for Sale” e di “Broken Doll”, fino al mood più tradizionale di “All Right, Yeah”. L’album si concede solo una pausa di riflessione con “Receiver” per prepare il campo al meglio per la traccia successiva, quella “Lost Ship” pubblicata come singolo e perfetta scelta per fornire una sintesi di quello che “Weird” riesce a incarnare con un’atmosfera che ci riporta nel profondo del cantautorato rock americano. Ma è uno degli episodi finali, la traccia dal titolo “No Meaning”, a eccellere per slancio emotivo, una ballad a elevato tasso empatico che va a mettere la ciliegina sulla torta a un disco intrigante e in grado di trascinare l’ascoltatore in un viaggio lungo le strade della musica americana, proprio come ce le immaginiamo da qui.