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REVIEWSLE RECENSIONI
08/06/2019
Waterboys
Where The Action Is
I dieci brani dell’album sembrano assemblati un po' a casaccio, accostando a cose buone (non molte, a dir la verità) anche episodi senza senso, in un contesto più stridente che eclettico

Per chi è fan di lunga data dei Waterboys, non è mai agevole raccontare l’uscita di un loro nuovo disco.  Faccio questa doverosa premessa, perché amo talmente Mike Scott, che sul comodino, a fianco delle foto dei miei cari, tengo una copia di Fisherman’s Blues e una di This Is The Sea. Quindi, essere obiettivo è un’impresa, soprattutto tenendo conto della produzione altalenante della band scozzese degli ultimi anni, che ha alternato dischi piacevoli ma prescindibili (An Appointment with mr.Yeats del 2011), a ottime prove (Modern Blues del 2015), ad album dal grande appeal commerciale, ma decisamente pasticciati (Out Of All This Blue del 2017).

Questo Where The Action Is, a parere di chi scrive, si inserisce nella scia tracciata dal precedente, e si ha la forte sensazione che Mike Scott sia arrivato in un momento della propria carriera in cui, pur avendo tante idee, queste siano un po’ confuse e spesso costrette a convivere forzatamente nello stesso contenitore. Come far legna per il camino, e non far alcuna distinzione fra rami secchi e quelli, invece, ancora verdi, che fanno molto fumo e poco fuoco.

Così, i dieci brani dell’album (ma nella versione deluxe c’è un secondo cd di alternative version) sembrano assemblati un po' a casaccio, accostando a cose buone (non molte, a dir la verità) anche episodi senza senso, in un contesto più stridente che eclettico.

Il disco inizia rombante, e si potrebbe pensare a una precisa impostazione della scaletta che, in realtà, successivamente prende un’altra piega. Mike mostra i muscoli con due brani decisamente rock (la title track e London Mick, punk’and’roll anni ’70 che omaggia Mike Jones dei Clash), le chitarre sono aggressive, il tiro notevole, ma nessuno dei due brani, per quanto cazzuti, ci fa sobbalzare dall’emozione.

Out Of All This Blue (titolo identico al precedente album) è un mid tempo venato di soul, con arrangiamento di fiati e spolverate di hammond, che nel finale ammazzano la canzone con un retrogusto da balera a fine serata. Il primo singolo, Right Side Of Heartbreak, è un funkettino dal sapore anni ’80, molto piacevole ma niente più.

Lo Scott ispirato arriva subito dopo, e piazza nel cuore del disco le cose migliori: il mood agrodolce dell’ispiratissima ballata In My Time On Earth e Ladbroke Grove Symphony, che scivola rapida sul velluto di un groove irresistibile.

La magia dura una decina di minuti, perché l’incomprensibile hip hop spolverato di raggamuffin di Take Me There I Will Follow You lascia allibiti e sconfortati per quanto è brutto, e non è da meno Then She Made the Lasses O, in cui il buon Mike, non si capisce a quale scopo, riesce perfino nell’intento di far convivere sonorità celtiche, elettronica e ritmica hip hop.

Tralasciando l’inutile And There’s Love, il disco si chiude con Piper At The Gates Of Dawn, morbida linea di piano e carezzevoli interventi di violino e sax a musicare un estratto dal romanzo Il Vento Tra i Salici, classico per l’infanzia a firma Kenneth Grahame. Un episodio riuscito, questo, con cui Scott, come anche in passato ha fatto, riesce a veicolare attraverso la musica pagine importanti di letteratura.

Un merito indubbio che però non riesce a risollevare completamente le sorti di un disco che, pur non essendo da buttare, è destinato a rimanere un capitolo minore di un musicista e di una band che hanno fatto la storia della musica scozzese.


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