“Every day I look more light my father”.
(Ben Harper, “Giving Ghosts”)
L’immagine della copertina di Wide Open Light assomiglia a una di quelle diapositive un po' sbiadite che servivano a raccogliere e immagazzinare i ricordi più importanti delle nostre vite trenta o quaranta anni fa, prima che diventasse così semplice (forse troppo?) fotografare e condividere le nostre quotidianità con il mondo esterno. Questa immagine, però, rimane unica e preziosa, non ha didascalie che spieghino il suo significato e questo è un bene. La nostra fantasia si può mettere in moto e può cominciare a raccontare di un’umida sera estiva, in cui il silenzio del quartiere ci porta a riflettere su piccoli frammenti irrisolti del nostro passato, a volerli raccogliere, metterli in prosa e trovarci un accompagnamento strumentale essenziale e quasi “nudo”, in cui ogni parola cantata assume un peso specifico così grande che non può essere spiegato ma solo raccontato da una voce e una chitarra, uniti nel crepuscolo di una notte speciale.
Nei suoi trent’anni di carriera abbiamo avuto tanti e diversi Ben Harper, che si è perso e ritrovato nelle strade del mondo e del mercato musicale fino a smarrire la via di casa. Dal primo giovane e ribelle rivoluzionario del rock (seppur acustico), trasformato in una “quasi” pop star grazie ad album ben confezionati ma innocui come Diamonds on the Inside (2003), siamo arrivati alla ricerca quasi ossessiva di punti di riferimento antichi e solidi, ritrovati nel gospel corale dei The Blind Boys of Alabama e nel blues suonato insieme al mitico armonicista Charlie Musselwhite. Ci sono mille fonti e ispirazioni nel songwriting di Ben, ugualmente influenzato da blues, funk, gospel, reggae e soul, fino al punto di non poter riconoscere che il maggior talento di Harper sia stato quello di riciclare senza creare qualcosa di unico e personale.
Gli anni passano anche senza di noi, e questa folle corsa chiamata vita, dona e priva in ugual misura. Da figli si diventa padri, grandi storie d’amore si chiudono, i capelli si diradano e qualche amico ci viene tolto. Un circolo concentrico che si ripete inevitabilmente e porta Ben Harper a voler ricercare l’essenziale sia come uomo che come artista. Su questa strada si pone Bloodline Maintenance del 2022, in cui il legame paterno si lega a una ricerca sonora che trasforma le sue radici musicali, in qualcosa di vivo e pulsante. Un soul “nero” che viaggia libero da condizionamenti commerciali e ora viene completato da questo Wide Open Light, il suo gemello, solo in apparenza così diverso e lontano.
Entrambi i dischi sono “solisti” nel vero senso della parola, essendo stati scritti e suonati quasi esclusivamente da Ben, che raccoglie undici brani provenienti da annate diverse, a volte composti per altri artisti o recuperati perché poco adeguati al sound dell’epoca in cui sono nati. Harper fa il punto della situazione e riabbraccia alcuni figli perduti, organizzando l’album come un concept “dell’anima”, aperto e chiuso da due strumentali, aggiungendo a voce e chitarra acustica solo alcune linee di basso, slide elettrica e un timido pianoforte. Per diversificare il supporto vocale e corale invita alcuni amici a duettare con lui, dal fedele Jack Johnson nel singolo “Yard Sale”, a Shelby Lynne in “8 Minutes”, fino a Piers Faccini nella title track, ma è netta e chiara la sensazione di ascoltare un cantastorie che si racconta a sé stesso, senza paura di omettere paure, lacune e limiti. Ben Harper considera la sua vita e la produzione musicale del tutto connesse tra loro, un modo necessario per esprimere chi è diventato nel 2023, e lasciando la parola all’autore, “Wide Open Light rappresenta le mie radici e spero che la gente possa ascoltarlo senza pregiudizi. È un album che manda al diavolo la musica pop, le radio e l’industria discografica. This is my kiss my ass record. Ha dentro il sound che ho voglia di sentire adesso.”
Citando un picco assoluto dell’essenziale in forma poetico/musicale, Wide Open Light è il Nebraska di Ben Harper. Ovviamente non ha quell’impatto deflagrante e non può essere definito un capolavoro come l’irripetibile disco di Springsteen, ma tocca il cuore di chi ascolta in modo sincero e disarmante. Eliminati tutti gli sprechi, quello che rimane è musicalmente semplice ma intenso, accompagnato da parole che tracciano la storia di Ben Harper, insieme a quella di chi ascolta.
In “Giving Ghosts” rivive la consapevolezza che i nostri cari perduti, rivivono in noi stessi. Un brano molto importante per Harper, scritto in Australia alcuni anni fa nel backstage della Sydney Opera House, e riproposto in quella struggente versione dal vivo, per voce e lap steel guitar, dato che in studio non riusciva ad assumere la stessa urgenza della prima versione in presa diretta. “Masterpiece” (scritta per l’album The Devil You Know di Rickie Lee Jones del 2012) racconta la perfezione di un amore umano, quindi imperfetto e meraviglioso: “Ti amo per quello che sei. Ti amo per quello che forse non sarai mai. Dal centro città fino alla 142esima strada. E tutte le mie ricchezze, significano meno di nulla. Amarti è il mio capolavoro.” Un piccolo haiku romantico che ricorda il Cat Stevens più struggente.
La pandemia torna in “8 Minutes”, dove il sole colpisce più libero e pulito, nel silenzio di strade disintossicate (momentaneamente) dallo smog, creando una riflessione poco dolce e molto amara e un tocco impegnato che lascia spazio ai dolorosi addii sentimentali di “Yard Sale” e di “Trying Not To Fall In Love With You”, in cui non vi è speranza di redenzione per un rapporto ormai concluso. Mentre il primo brano ci culla dolcemente (illudendoci) in un duetto soave tra Ben e Jack Johnson, la vera sorpresa musicale emerge nel secondo, totalmente pianistico, quasi sghembo nel suo voler omaggiare con amore il Tom Waits degli albori (periodo “Small Change”).
Sembra passare solo un attimo, e il tempo non ci lascia nessuna tregua, mentre Ben Harper vede la figlia nascere, crescere e lasciare il nido in un batter d’occhio, in “Growing Growing Gone”: “I tuoi piedi toccavano appena il suolo. Quando mi sono girato. Quando i sogni diventano realtà. È difficile dormire. Lentamente alla deriva nel profondo. Lei sta crescendo, crescendo. Se n'è andata”. Gli ultimi brani tracciano vari solchi nella direzione della speranza, tra cambiamenti positivi da mettere in atto (“One More Change”), un omaggio strumentale ad un amico e maestro che non ha avuto la sua stessa fortuna (“Thank You Pat Brayer”), per culminare nel folk soul che dà nome al disco e che illumina la strada con delicata risolutezza: “Se il domani inizia oggi, è meglio che ci mettiamo in cammino. Non c'è tempo da perdere. Solo tu mi restituisci la fede. Gli errori sono destinati a ripetersi fino a quando non li avrò corretti. Cammina con me verso la luce aperta. Luce spalancata”.
Non troverete miracoli musicali in Wide Open Light, un disco che nulla inventa ma che riesce ad emozionare perché suona diretto, onesto e racconta la vita di un uomo e artista “puro”, che sta cercando sé stesso, come tutti noi.