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REVIEWSLE RECENSIONI
16/09/2024
Nick Cave & The Bad Seeds
Wild God
Dopo due album in cui ha esplorato le profondità abissali del lutto (e uno dedicato alle pene del lockdown), con “Wild God” Nick Cave torna finalmente a galla, per testimoniare che cosa significhi trovare la luce in fondo al tunnel.

Il 6 marzo scorso, dopo che Nick Cave ha svelato la data di pubblicazione di Wild God, diciottesimo lavoro in studio con i Bad Seeds, divulgandone il primo singolo, in molti sono rimasti perplessi dopo aver letto questa sua dichiarazione: «Spero che l’album abbia sugli ascoltatori l’effetto che ha avuto su di me. Esce dall’altoparlante e io ne vengo travolto. È un disco complicato, ma anche profondamente e gioiosamente contagioso. Non c’è mai un piano generale quando facciamo un disco. I dischi riflettono piuttosto lo stato emotivo degli autori e dei musicisti che li hanno suonati. Ascoltando questo, non so, sembra che siamo felici».

Nick Cave e i Bad Seeds felici?

 

Da un lustro abbondante a questa parte, in seguito al tour Conversations with Nick Cave del 2019, al libro-intervista Fede, speranza e carneficina del 2022 scritto con il giornalista Sean O’Hagan e alla newsletter The Red Hand Files (attraverso la quale interagisce direttamente con chiunque senta il bisogno di porgli una domanda, agendo spesso – come ha scritto acutamente Amanda Petrusich del New Yorker – come «un Virgilio inaspettato per chiunque sia impantanato nel dolore e stia cercando una guida calda ma non sentimentale»), Nick Cave ha ormai trasceso il suo ruolo di cantautore, diventando una vera e propria personalità pubblica, conosciuta non solo dai fan di più stretta osservanza ma anche dal cosiddetto uomo della strada, tanto da essere invitato lo scorso anno (non senza qualche polemica) all’incoronazione di re Carlo III.

Il risultato, paradossale fino a pochi anni fa, è che il musicista australiano è più famoso ora che ha 66 anni e un radioso futuro dietro le spalle, di quando ne aveva 36 e aveva appena pubblicato uno gli album che senza dubbio andranno a costituire la sua eredità artistica (Let Love In).

Insomma, oggi come oggi, il nome Nick Cave & The Bad Seeds è costantemente in cima ai cartelloni dei festival, la loro musica viene suonata nei palazzetti e usata nelle serie televisive (vedi Peaky Blinders) e la gente accorre numerosa ai loro concerti come mai in precedenza. Se togliamo dal computo il recente Carnage, pubblicato sotto la sigla Nick Cave & Warren Ellis, Wild God esce nel momento in cui Nick Cave è più famoso, ammirato e stimato in assoluto. Questa recente sovraesposizione avrà influito sul nuovo disco? 

 

La risposta a tutte queste domande è probabilmente contenuta nella quarta canzone dell’album, “Joy”. È un pezzo che con i suoi sette minuti trascende la semplice esperienza musicale, diventando una riflessione quasi cosmica sul dolore e sulla redenzione, sul modo in cui l’arte può offrire uno spazio per esprimere l’inenarrabile. È un momento musicale particolarmente intenso, che sembra spostare il tempo e lo spazio, dissolvendo le convenzioni della forma-canzone per esplorare un territorio sonoro che non ha bisogno di strofe o ritornelli per comunicare il suo messaggio. Questo stile, che Nick Cave e il suo braccio destro Warren Ellis hanno introdotto a partire da Push the Sky Away (2013) e perfezionato nei tre dischi successivi, Skeleton Tree (2016), Ghosteen (2019) e Carnage (2021), in Wild God raggiunge un nuovo apice. “Joy” è una canzone che serpeggia e si dissolve, come se cercasse di afferrare un’idea sfuggente, una verità che si trova al confine tra la veglia e il sogno, tra la vita e la morte. Ma qual è questa verità?

A conti fatti, “Joy” è un dialogo impossibile tra Nick Cave e suo figlio Arthur, scomparso nel 2015 a soli 15 anni dopo essere caduto accidentalmente da una scogliera poco fuori Brighton. Lo scambio prende forma attraverso un accumulo di immagini surreali e spettrali, fino ad arrivare a quella del «fantasma in scarpe da ginnastica giganti» che perseguita Cave. Questo fantasma in realtà non è una presenza inquietante, ma è anzi un messo che porta con sé un messaggio proveniente da un altro mondo, un luogo dove il dolore ha trasceso se stesso, trasformandosi in una forma di gioia. Il punto centrale della canzone arriva quando Cave canta: «Abbiamo avuto tutti troppi dispiaceri, ora è il momento della gioia», un verso che si rivela non solo un richiamo alla speranza, ma una sorta di invito a superare il lutto, a trovare un modo per convivere con la perdita, senza esserne schiacciati.

 

Il Nick Cave di Wild God è quindi un Nick Cave felice? Magari non completamente, anche perché tutto sommato il cantautore australiano rimane comunque una persona ombrosa, riflessiva e austera, avvolta da quello che Battiato chiamerebbe (con una certa dose di ironia) «sintomatico mistero». Ma non c’è dubbio che oggi Cave è una persona risolta, che dopo aver esplorato gli abissi insondabili del lutto, ora è tornato a galla, per testimoniare che dal dolore si può uscire e che c’è sempre, per tutti, una luce in fondo al tunnel.

Ecco, Wild God è pervaso da una continua tensione tra oscurità e luce, tra dolore e speranza. Ogni canzone sembra portare con sé il peso delle esperienze passate, delle perdite subite (nel 2022 Cave ha dovuto affrontare la morte di un altro figlio, Jethro Lazenby, avvenuta a 31 anni, a cui si sommano la scomparsa della madre Dawn nel 2020 e del tastierista dei Bad Seeds Conway Savage nel 2018), ma allo stesso tempo cerca di trovare un modo per superarle, per andare oltre. È un processo di trasformazione che si riflette non solo nei testi delle canzoni, ma anche nella musica stessa. La combinazione di suoni sintetizzati e strumenti acustici, che vedono il ritorno (parziale) dei Bad Seeds, e l’approccio meditativo che caratterizza l’intero album, creano un’atmosfera che è allo stesso tempo eterea e terrena, una musica che sembra provenire da un luogo al di là del mondo materiale, ma che è profondamente radicata nelle esperienze più umane.

 

Cave ha iniziato a comporre le canzoni di Wild God la mattina del Capodanno 2023, senza nessuna idea in testa. L’unica cosa di cui era sicuro, però, era che il nuovo disco doveva essere più estroverso e immediato dei precedenti, e doveva prevedere il coinvolgimento dei Bad Seeds. E così, in primavera, dopo aver constatato che gli arrangiamenti dell’album sarebbero stati troppo simili a quelli di Skeleton Tree e GhosteenQuei dischi hanno lentamente messo da parte la band, diventando un modello che non mi stava più piacendo»), Cave ha deciso che l’album aveva bisogno di ritmo. Ma siccome il bassista dei Bad Seeds Martyn Casey abita a Freemantle, in Australia, ha chiamato Colin Greenwood dei Radiohead, che aveva suonato con lui ed Ellis nel tour di Carnage. Subito dopo, Cave ha chiamato il batterista Thomas Wylder, che dal 2018 non suona più dal vivo con i Bad Seeds per motivi di salute, mentre il chitarrista George Vjestica si è aggiunto alla squadra quando la lavorazione del disco si è spostata ai Miraval Studios, in Provenza, dove li ha raggiunti anche il percussionista Jim Sclavunos. A dare un tocco finale al disco ci ha pensato David Fridmann (Flaming Lips, MGMT), che ha mixato l’album nel suo studio casalingo a Cassadaga, vicino a New York.

Il desiderio di Nick Cave di riunire i Bad Seeds è dovuto al fatto che desiderava creare un suono che fosse allo stesso tempo potente e delicato, che fondesse la muscolarità della band con la fluidità delle esplorazioni sonore più recenti. Il risultato è un album che sembra respirare, che pulsa di vita propria ed è allo stesso tempo fragile e robusto. Con la chitarra elettrica ancora in secondo piano, le canzoni poggiano sul pianoforte di Cave e i sintetizzatori analogici di Ellis, mentre i cori dal sapore ecclesiastico e le orchestrazioni dal gusto spectoriano danno all’album un sound maestoso, ai limiti del trascendente: «Non si scherza con questo disco. Quando colpisce, colpisce. Ti solleva. Ti commuove. Mi piace questo aspetto», ha detto il cantautore australiano.

 

A pensarci bene, Wild God è un disco che trova la sua forza negli opposti, nella dualità. Lo si capisce ascoltando “O Wow O Wow (How Wonderful She Is)”, la canzone che Cave dedica ad Anita Lane, sua ex collaboratrice e partner scomparsa nel 2021. Il pezzo è un omaggio a una vita passata, a un tempo in cui tutto sembrava possibile, ma è anche una riflessione su ciò che è stato perduto e che non può essere recuperato. La risata agrodolce di Lane che chiude il brano, presa da una conversazione telefonica, è il ricordo di un momento di felicità, ma anche un’eco di qualcosa che non esiste più. La musica, con le sue melodie delicate e il suo arrangiamento minimale, sembra voglia catturare l’inafferrabile, nel tentativo di dare forma a qualcosa che non può essere descritto con le parole.

Anche “Frogs” offre un’immagine simile, quella delle rane che saltano verso Dio, stupite dall’amore e dal dolore; un simbolo di resilienza, di un’ostinata volontà di continuare a cercare, a sperare, anche quando tutto sembra essere senza senso. Forse questo è il vero messaggio di Wild God: un costante tentativo di trovare un significato in un mondo che spesso sembra privo di senso, di trovare gioia in mezzo al dolore, di continuare a saltare, anche quando la destinazione è incerta.

 

L’album inizia quasi in medias res, con il ritmo maestoso e allo stesso tempo misurato di “Song of the Lake”, una canzone che nel finale esplode verso in un tripudio di suoni, come se la musica stessa stesse cercando di liberarsi. La batteria di Thomas Wydler, che inizialmente mantiene un ritmo controllato, nella seconda parte del pezzo crea un climax che è al tempo stesso caotico e liberatorio. È un momento di catarsi, che mette in chiaro fin da subito il tema centrale dell’album: la necessità di trovare un modo per andare avanti, per liberarsi dal dolore, per trovare un senso di gioia anche nelle circostanze più difficili.

Un altro brano chiave di Wild God è senza dubbio “Conversion”, un pezzo che sembra uscito dal canzoniere di Peter Gabriel (dalla seconda facciata del vinile di So, per la precisione): inizia in maniera sobria e composta per poi trasformarsi in un’esplosione di voci, grazie a un coro che sembra provenire da un altro mondo. È un brano che esplora il concetto di trasformazione, di redenzione, di come la sofferenza possa essere trasformata in qualcosa di bello, di come la musica possa essere un mezzo per esprimere ciò che non può essere detto in altro modo. La voce di Cave, che diventa sempre più estasiata man mano che la canzone procede, è un altro esempio di come l’album riesca a catturare l’idea di una gioia conquistata a fatica, di una bellezza che nasce dal dolore.

 

Come rivelato da Cave in un numero della newsletter The Red Hand Files, in “Wild God” «il vecchio “con i lunghi capelli a cascata” è fuggito dalla sua casa di riposo e vola attraverso la città morente, alla ricerca di qualcuno che creda in lui. Vola sulla terra, sul cielo, sul mare, attraverso la sua storia, attraverso la sua memoria, come un “uccello preistorico”, alla ricerca di qualcuno che lo guardi e creda in lui. “Dov’è il mio popolo?”, grida. Il dio selvaggio della mia canzone è alla ricerca di ciò che tutti noi cerchiamo: non qualcosa in cui credere, ma piuttosto qualcuno che creda in noi». Il climax della canzone, sostenuto da coro e orchestra, è un momento di pura catarsi musicale, un’esplosione di emozione che sembra riecheggiare l’idea centrale dell’album: la necessità di trovare un senso, di trovare una direzione, anche quando tutto sembra perduto.

 

Insomma, Wild God è un album che parla di resilienza e di come l’Uomo sia capace di trovare la bellezza anche dove questa sembrano non esserci. È un album dove il suo autore non ha paura di confrontarsi con l’oscurità, perché sa che prima o poi troverà la luce. In questo senso, Wild God è senza dubbio il lavoro più ottimista che Cave abbia mai realizzato, non perché ignori il dolore – anzi, proprio perché lo affronta, lo esplora e alla fine trova un modo per superarlo.

Dopo anni di dolore e sofferenza, Wild God rappresenta una sorta di rinascita per Cave, sia dal punto di vista personale sia da quello musicale. Magari non è quell’ennesimo capolavoro che tutti si attendevano dopo un filotto di dischi praticamente perfetti, ma di sicuro è l’album che Nick Cave aveva bisogno di realizzare. Il messaggio finale del disco? Che la vita vale sempre la pena di essere vissuta e che in mezzo alla disperazione, anche nell’ora più buia, la soluzione a tutto è quella di continuare a saltare, come fanno le rane di “Frogs”, anche quando non si sa dove si atterrerà.