È Hayden Anhedonia in sé a essere un’opera d’arte. Lo sono la sua vita e la sua narrazione, una storia che da oggi comprende anche un prequel pensato come una potenziale trasposizione cinematografica. Lo sono i servizi fotografici in cui si presta come modella per sofisticate griffe di moda. Lo è la sua pelle, tela di espressioni di un simbolismo indecifrabile. Lo sono certi suoi video in cui racconta gli oggetti taglienti che la circondano o altri aspetti complementari quanto borderline del suo personaggio, particolari in grado di alimentare l’immaginario fetish e voyeuristico dei fan meno disinteressati.
Queste cose dovremmo ricordarle, ogni volta in cui ci apprestiamo a scrivere di Ethel Cain e dei suoi dischi nuovi, anche in un ferragosto in cui, in assenza di tormentoni e di non-notizie pop, il dissing social consumato a ridosso della pubblicazione di Willoughby Tucker, I’ll Always Love You contro Lana Del Rey assume i contorni di una scaramuccia tra star sin troppo off nei contenuti per questo genere di querelle, ma altrettanto colpevolmente da ombrellone (c’è un uomo condiviso di mezzo) rispetto al gossip mainstream.
Ethel Cain è un’artista che ha profuso tutto il suo impegno affinché musica e storytelling costituissero un tutt’uno indistinguibile, componendo, arrangiando, interpretando, cantando e suonando una parte degli strumenti e, allo stesso tempo, scrivendo la trama e delineando i dettagli della cupa vicenda di cui le sue composizioni sono imbevute. Un vero e proprio romanzo di formazione ambientato nell’immaginario culturale ed estetico del sud degli Stati Uniti, in un background in cui la tensione tra bigottismo, superstizione e abusi sessuali da una parte, e lo sfrenato ed estremo richiamo della modernità dall’altra, con l’aggravante dello smarrimento e conseguente transizione di genere nel periodo adolescenziale, offre una tale abbondanza di espliciti spunti narrativi da riempire più di una nottata, in binge watching, su una qualsiasi piattaforma streaming.
Per soddisfare in minima parte la curiosità, i videoclip autoprodotti dalla songwriter di Tallahassee, Florida, che abbondano sui suoi profili social sono teaser efficaci e squisitamente propedeutici di tutto quello che poi le sue canzoni svelano, durante l’ascolto.
Tutto questo e molto altro lo abbiamo visto, anzi, ascoltato in Preacher’s Daughter. Willoughby Tucker, I'll Always Love You, che ne costituisce il preambolo, e che racconta il turbamento con cui la protagonista ha vissuto la sua storia d’amore alle scuole superiori, più che influente per la continuazione della trama e il suo torbido finale che si consuma alla traccia conclusiva dell’album di esordio, porta avanti, anzi, indietro le lancette del suo concept, al momento in cui lo struggimento amoroso va a minare le sicurezze nel privato (l’esistenza stessa di Ethel Cain) e nel pubblico, un quadro disfunzionale tratteggiato in una riduzione letteraria (e in più di una licenza poetica) di quello che noi europei identifichiamo correntemente con il sogno americano.
Uno sguardo morboso dall’interno di una società che non smetteremo mai di considerare a dir poco pittoresca e per fortuna remota, da leggere e seguire alla tv, in cui il genere musicale di cui questo disco è permeato rende perfettamente l’idea delle perversioni, della deprivazione e di certe anacronistiche credenze soprannaturali. Tinte macabre, timbri dark, suoni corrosi fino al loro deperimento, tempi dilatati all’estremo che conferiscono atmosfere da trance estatica, una pratica in cui Ethel Cain risulta ad oggi imbattibile, a valle delle sue sperimentazioni già messe in atto nel precedente di pochi mesi fa, l’album Perverts.
Più forma che sostanza? Un dualismo per critici e speculatori che non esprime un vincitore e uno sconfitto. Willoughby Tucker, I'll Always Love You alterna sapientemente struggenti brani country folk dai contorni decadenti, come l’apertura di chitarra e voce di “Janie”, il singolo “Nettles” - sicuramente il brano più accomodante del disco - e la rarefatta “A Knock At The Door”. Incorporei landscape strumentali intrisi di atmosfere ambient e drone, come “Willoughby’s Theme”, “Willoughby’s Interlude” fino all’incubo senza uscita di “Radio Towers”.
Nel disco trovano quindi posto una parentesi indie-pop, fintamente spensierata e dai ricami sintetici anni 80, “Fuck Me Eyes”, e le composizioni slowcore nei quali la cantautrice americana offre il meglio di sé, una manciata di dilatatissime ballad southern gothic dalle inquietanti dinamiche emotive come l’interminabile “Dust Bowl”, la diafana “Tempest” e i quindici minuti di coda di “Waco, Texas”, composizione in cui la voce, supportata dalle incursioni di chitarre doom, non delude le aspettative di chi ricerca in Hayden Anhedonia (e nelle torbide vicende di Ethel Cain) una giustificazione esaustiva al proprio disagio esistenziale. E che quest’anno siano usciti due dischi suoi, così diversi ma così altrettanto imprevedibili, vi assicuro, non costituisce nessun problema.