Sono lontani i tempi in cui, grazie anche ad un film come Quadrophenia assistemmo ad un rifiorire di band e di situazioni moderniste che mutuarono il loro stile tra r’n’b e urgenza sonora dei sixties con la rabbia del punk e la coolness dello ska. Qualche piccolo seme di quella breve stagione è rimasto ancora oggi, e tra chi se ne è uscito di scena, o si è evoluto pur rimanendo di base fedele alla chiesa, come Paul Weller, o chi si è ritrovato tra vecchi amici per suonare ancora insieme, come The Secret Affair, il verbo Mod ogni tanto riesce nuovamente a far breccia.
The Spitfires sono al terzo album, non poco per un genere che gira solo o quasi tra i fans, e poco ma sicuro con “Year Zero” hanno realizzato il loro album più maturo. Sì, qualcuno potrà dirmi che il cantante canta come il Weller degli esordi e che insomma aleggia tutto intorno un’aria alla The Jam, ma non saranno certo i primi e neppure gli ultimi a suonare derivativi, dal momento che un buon ottanta per cento della produzione odierna suona così e visto che ancora c’è qualcuno che si ostina a chiamare capolavori dischi ricicciati di artisti cotti e bolliti.
“Year Zero” vede un deciso cambio di direzione rispetto ai due album m precedenti; se negli altri la band flirtava con le sonorità indie, qui entrano in campo le suggestioni giamaicane in forma di ska e dub a chiudere il cerchio con quello che girava intorno nel Regno Unito in quei giorni di fine anni Settanta.
Canzoni asciutte e urgenti, come possiamo ascoltare nello ska dell’iniziale “Remains The Same” o nella bellissima “Something Worth Fighting For” ibridata dal dub e con un testo che ti sprona a non vivere di speranze.
L’r’n’b fa capolino in “Over and Over Again”, canzone dalle suggestioni soul, il sound à la The Jam è sublimato nella incalzante “Front Line”, e qui davvero sembra di essere tornati indietro di quarant’anni, mentre le note di un piano ci consegnano in “By My Side” una ballad malinconica a due voci, dove Emily Capell fa da contraltare alla voce intensa di Billy Sullivan. Ancora il dub a farla da padrone in “Move On” mentre echi di r’n’b ci regalano i fiati in “Sick of Hanging Around”, bel brano che trova nel power-pop la sua ragione d’essere. Lo stesso che ascoltiamo in “The New Age” pezzo questa volta depurato da trombe e sax, che ha un piccolo intermezzo rock steady nel bel mezzo del brano.
Le sirene della polizia fanno da sottofondo alla title-track, pezzo dub strumentale che rimanda ai Clash più neri, preludio alla conclusiva “Dreamland” introdotta dalle note di un organo che prosegue con andamento reggae-dub, sigillo ad un album pieno di sorprese e di una varietà di stili come soltanto i veri mods riescono a fare.
Vi diranno che manca di originalità ma non date retta, quel che conta qui è l’attitudine, il mood urbano che si respira nei suoi solchi, canzoni che ci raccontano la vita di tutti i giorni di ognuno di noi, ma affrontata con stile.