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REVIEWSLE RECENSIONI
20/10/2022
Cheap Wine
Yell
Quando guardi i Cheap Wine capisci che si possono ancora seguire i propri sogni, che nella vita si può ancora andare avanti privilegiando quel che si ama, che si può vivere esattamente come si vorrebbe, nonostante tutte le difficoltà del caso.

È uscito il nuovo disco dei Cheap Wine e già questo dovrebbe aiutarci ad essere un pochino più ottimisti sul fatto che il mondo non sia per forza di cose destinato a collassare su se stesso, nonostante siamo tutti d’accordo che la musica sia ben poca cosa di fronte alle grandi sfide che stiamo affrontando. 

Eppure quando guardi i Cheap Wine capisci che si possono ancora seguire i propri sogni, che nella vita si può ancora andare avanti privilegiando quel che si ama, che si può vivere esattamente come si vorrebbe, nonostante tutte le difficoltà del caso.

E poi è in qualche modo confortante il fatto che, qualunque cosa succeda, ogni due, tre anni o giù di lì, arriveranno questi pesaresi a darci nuova musica per arricchire le nostre giornate. 

Yell è il loro undicesimo disco, il primo dalla pandemia, il quinto ad uscire in ottobre, il terzo realizzato tramite crowdfunding. Che siano un gruppo che ama lavorare secondo un certo schema, e che non intende cambiarlo finché funziona, lo si vede anche dal fatto che, esattamente come tutti gli altri, anche questo lo hanno registrato allo Studio Castriota di Marzocca, in provincia di Ancona, con Alessandro Castriota nell'insostituibile ruolo di ingegnere del suono e co produttore. 

E questo credo sia davvero un caso unico nella storia del rock: avete in mente molte altre band (a parte i Beatles) che hanno registrato per tutta la propria carriera nello stesso posto e con le stesse persone? E di nuovo, si potrebbe obiettare che variare la formula una volta tanto potrebbe portare dei benefici, ma poi se si ascolta quanto suonano bene questi lavori, quanto siano potenti e ben definiti i suoni, quanto sia presente la componente live, nonostante i dovuti accorgimenti di produzione, allora ce lo possiamo veramente dire: perché cambiare? 

La pandemia ha colpito duramente il gruppo, i concerti che era solito tenere da un capo all'altro dell’Italia non sono stati possibili, complici anche le chiusure di tantissimi locali che in passato erano stati per loro come una seconda casa. 

Yell nasce da qui e parla di riscatto e di voglia di ripartire, in ogni sua nota e in ogni suo elemento. La copertina (questa sì, è una novità) è di Alessandro Baronciani ed il suo tratto inconfondibile è al servizio di un soggetto essenziale, una semplice figura umana a braccia alzate ed espressione felice in volto, un urlo molto più di gioia che di rabbia; il tutto in campo arancione, colore vivace che contrasta in modo piuttosto netto con la cover del precedente Faces, molto più fredda e solenne, in un certo senso. 

Ovviamente non si giudica un disco dalla copertina ma in questo caso il legame c’è: Yell è un disco che parla di liberazione, della voglia di riprendersi la vita dopo un periodo di paura, di ritrovare il ritmo della natura per sfuggire all'accelerazione spersonalizzante della modernità, di rimanere fedeli al proprio credo, al proprio cuore, anche quando il mondo ti chiede di mentire e di essere parte di un ingranaggio implacabilmente utilitaristico. Che sono poi i temi che Marco Diamantini ha trattato in tutti i dischi della sua band, anche se le particolari circostanze in cui è nato quest’ultimo hanno senza dubbio lasciato il segno più di altre volte.

Anche dal punto di vista musicale la ricetta è sempre la stessa. I Cheap Wine appartengono ad un altro tempo e ad un'altra storia, suonano come se fossero negli Stati Uniti e come se artisti come Neil Young e Bob Dylan fossero ancora la next big thing della scena musicale. Indifferenti a tempi e mode, hanno sempre fatto quello che amano fare, scrivendo musica che parla sia il linguaggio del rock classico sia quello della psichedelia in salsa Paisley Underground (anche se quest’ultimo aspetto negli ultimi lavori è stato progressivamente accantonato) e se pure hanno caratterizzato i loro album più recenti con alcuni tratti distintivi (Beggar Town cupo ed oppressivo laddove Dreams era un'esplosione di colori, Faces ruvido e a tratti spigoloso, Based on Lies molto accessibile e diretto) la formula è rimasta immutata, il riff imperioso che esce dalla chitarra di Michele Diamantini in apertura a “Greedy For Life”, immediatamente sostenuto dalle tastiere di Alessio Raffaelli, equivalgono ad una firma su un documento. 

A questo giro smussano le asperità e realizzano dieci canzoni lineari e di grande impatto, dove la rabbia per una volta scompare e lascia il posto a piacevoli aperture melodiche. Non è un disco spensierato, però, e allo stesso tempo non è un disco cupo. Lo definirei semplicemente “assertivo”: è fatto di canzoni che usano il rock per dire una verità banale ma che è sempre giusto ribadire: vivere è bello, anche se per farlo spesso occorre lottare duramente. 

E quindi via con i soliti robusti mid tempo, come la già citata “Greedy For Life”, oppure la title track, che contiene un paio di riferimenti neanche troppo velati a Bob Dylan nel testo e che a livello di atmosfere si muove dalle parti di Crime Stories. Un ottimo brano, uno dei migliori del lotto, senza dubbio. Poi ci sono cose più accelerate, brani dove si batte il tempo e si oscilla la testa: “No Longer Slave”, che è anche il primo singolo estratto e che è Cheap Wine all’ennesima potenza; oppure “The Devil Is Me”, altro brano da manuale (questa avrebbe potuto stare benissimo su Based on Lies) o ancora “Sun Rays Like Magic”, che è una delle più dirette e allegre, un bel pezzo di speranza, con un ritornello decisamente vincente. 

E non sarebbe un disco dei Cheap Wine se non ci fossero le ballate: “Your Fool's Gold”, con ottimi inserti di elettrica nelle strofe e con un solo molto ispirato; “The Scent of a Flower”, molto dolce, anche questa particolarmente ispirata; e poi “Floating”, dal ritmo cullante come da titolo, che è semplicemente una delle canzoni migliori della loro carriera. 

In chiusura ci sono entrambe le facce di questo lavoro: prima “Colors”, veloce e aggressiva, poi “The Last Man on the Planet”, lenta e solenne, con tanto di lunghi soli di chitarra e tastiera in coda. 

Fuori tempo e fuori moda, loro stessi dicono che a rigor di logica non dovrebbero esistere. Eppure sono ancora qui: speriamo davvero che ci rimangano per molto.