“La mia vita, la mia povera vita infelice e a volte viva e a volte capace d’amore, non è stata solo illusione e sfacelo e pazzia, e dimenticarlo è un peccato mortale. È fondamentale, nelle tenebre, ricordarsi di aver vissuto anche nella luce e che la luce non è meno vera delle tenebre”.
Emmanuel Carrère è nato a Parigi il 9 dicembre 1957 in una famiglia colta e borghese, che ha influenzato profondamente il suo percorso umano e professionale. Ha frequentato Sciences Po (Istituto di studi politici di Parigi), una delle università più prestigiose in Francia e il Centro di formazione dei giornalisti di Parigi, avvicinandosi, così, alla scrittura e al giornalismo. Si è interessato molto anche al cinema, in qualità di critico cinematografico e sceneggiatore. La sua formazione, quindi, è stata duplice: da un lato umanistica e storica e dall’altro orientata verso la narrativa, il giornalismo e l’immaginario cinematografico, elementi che ritroviamo anche nel suo stile letterario.
Suo padre, l’avvocato Louis Carrère d’Encausse, era nato a Bordeaux e apparteneva a una famiglia di origine basca. La madre, invece, Hélène Carrère d’Encausse (1929-2023), nata a Parigi da una famiglia georgiana emigrata, è stata una presenza “ingombrante” e decisiva nella sua vita: accademica e intellettuale, storica di grande fama, esperta della Russia e dell’Unione Sovietica, eurodeputata, membro dell’Académie Française e dal 1999 sua segretaria perpetua (prima donna a ricoprire tale carica).
Una donna di successo, forte e determinata, con cui Carrère ha sempre avuto un rapporto intenso, spesso conflittuale, ma fondamentale per la sua formazione e per il suo immaginario letterario: ammirazione da un lato e un bisogno più che legittimo di sentirsi visto, accettato e apprezzato, dall’altro. Reggere il confronto con lei, doversi scontrare con il suo essere molto severa, esigente, attenta ai risultati e poco incline alle manifestazioni d’affetto, è stato molto faticoso, come anche riuscire a emanciparsi e costruirsi un’identità che fosse sua. Ecco perché non sorprende che l’autore abbia sviluppato una personalità di tipo narcisistico che, in molti casi, scaturisce proprio da un rapporto disfunzionale con la propria madre.
Carrère, nei suoi libri, non ha mai nascosto quanto sia stato faticoso riuscire a trovare un po’ di luce, vivendo costantemente all’ombra di una donna tanto autorevole. In Un roman russe (2007), Hélène Carrère d’Encausse appare quasi come un personaggio letterario: una madre a tratti soffocante, che non approva alcune scelte del figlio, non ne perdona le fragilità, e che non perde occasione per muovere critiche. La madre, in un certo senso, è stata musa e giudice severo, un’ombra che lo accompagnava in ogni gesto creativo, ma anche una presenza da cui cercare riconoscimento e approvazione. Un rapporto madre-figlio mai pacificato che, come tale, rimane indelebile nella sua opera (e nella sua vita).
Yoga, a dispetto di quelle che erano le intenzioni iniziali dell’autore di scrivere un libricino “arguto e accattivante” sullo yoga e sulla meditazione, discipline che praticava ormai da tempo e che avevano contribuito in modo determinante al suo equilibrio psicofisico, si è trasformato nel racconto dei quattro anni durissimi durante i quali quei demoni che pensava di aver definitivamente sconfitto, del tutto inaspettatamente, gli sono ripiombati addosso.
Tutto ha inizio con Carrère che decide di partecipare a un seminario di meditazione Vipassana: dieci giorni di silenzio assoluto, fuori dal mondo, senza letture né distrazioni, un’esperienza che avrebbe dovuto consolidare ulteriormente quella quiete interiore che lo accompagnava da quasi un decennio.
Ben presto, però, la narrazione devia bruscamente. Sopraggiungono eventi traumatici che lo travolgono: la separazione dalla moglie, l’irrompere della depressione, la diagnosi di disturbo bipolare di tipo II, caratterizzata da sbalzi d’umore repentini e violenti, il confronto con la malattia, il ricovero nell’ospedale psichiatrico, le cure farmacologiche e l’elettroshock. Parallelamente, la Francia vive il trauma degli attentati a Charlie Hebdo, che coinvolgono persone a lui vicine, aggiungendo sgomento e ulteriore dolore al suo vissuto personale.
Il libro-confessione o, citando Carrère, la sua “personale versione di quei libri di autoaiuto che si vendono così bene”, si scompone in frammenti: riflessioni sulla meditazione, ricordi personali, viaggi, rapporti con le donne, descrizioni dell’ospedale, riflessioni filosofiche e momenti di cruda autoanalisi. Non c’è una trama lineare, ma un percorso interiore, a zig-zag, che segue l’andamento instabile della mente dell’autore e delle sue emozioni.
“Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetterò a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale.”
La parte più intensa e spiazzante del libro è proprio il racconto della malattia, la difficoltà di accettare la diagnosi e il dover imparare a conviverci. Il senso di smarrimento e, al contempo, di sollievo, perché tutto quel malessere trova finalmente delle risposte. Carrère mostra come il bipolarismo non sia semplice instabilità emotiva o melanconia, ma una condizione clinica devastante: alternanza di fasi depressive profonde, con pensieri di morte e totale immobilità, e momenti di energia maniacale, in cui la mente cambia passo, accelera e la realtà sembra esplodere.
La sua testimonianza restituisce al lettore non solo il dolore individuale, ma anche lo smarrimento di chi non riesce più a distinguere sé stesso dalla propria malattia. Il racconto della clinica, delle terapie “sono tra quei malati bipolari che rispondono bene al litio”, delle ricadute “Il litio rende i miei alti meno alti e i miei bassi meno bassi […] sono pronto a prenderlo, senza fiatare, fino alla fine dei miei giorni”, del dolore e della paura di non riuscire a tornare alla vita “continuo a non morire”, sembra riempire ogni spazio e appare come uno dei momenti più autentici e coraggiosi del libro.
Accanto alla depressione e al bipolarismo, emerge con prepotenza un altro tema: quello del narcisismo. Carrère non può fare a meno di mettere sé stesso al centro, trasformando ogni esperienza – anche la più dolorosa – in materiale narrativo. Questa autoreferenzialità non è solo la sua cifra stilistica, ma è anche sintomo psicologico: il bisogno costante di auto-rappresentazione e l’incapacità di vivere senza raccontarsi e mettersi al centro.
“Quello che dovrei fare io è dare la caccia alle frasi che cominciano con «io»”.
Il narcisismo, in questo caso non è, come molti credono, semplice vanità, ma assume i tratti seri della patologia. È un meccanismo di sopravvivenza che rende possibile, e al tempo stesso soffocante, la sua stessa esistenza.
Yoga è un libro irregolare e complesso, frammentato, a tratti doloroso e quasi irritante per l’egocentrismo che lo attraversa, ma allo stesso tempo sincero. Non è un manuale che parla di gioia e serenità, ma è un viaggio nel dolore e nella malattia, che sfocia nel bisogno di trovare un senso all’intera esistenza. Annegare, lasciarsi andare fino a toccare il fondo, per poi riuscire a darsi una spinta e tentare di risalire…
Carrère non concede mai tregua al lettore, e il suo modo di esporsi attraverso l’auto-fiction, in cui i confini tra realtà e finzione sono sottilissimi, può anche risultare eccessivo, ma proprio in questo eccesso si trova la forza del libro. Un rincorrersi senza fine tra luce e buio, tra empatia e apertura verso il prossimo e chiusura in sé, frutto della disperazione più profonda. Yoga non insegna a respirare meglio, ma mostra senza filtri quanto possa essere difficile, a volte, semplicemente riuscire a respirare.
“Sono passati anni, e oggi potrei dire quello che diceva William Hurt. Quello che cerco di fare, nella vita, è diventare una persona migliore – un po’ meno ignorante, un po’ più libera, un po’ più amorevole, un po’ meno assillata dal proprio ego, presumo che sia lo stesso. E cerco di diventare una persona migliore perché così sarò uno scrittore migliore”.

