La scrittura di You Don’t Love Me è semplice e l’ascolto dell’album procede senza intoppi, complice il sound curato e il songwriting che, se da un lato è semplice, da un altro non possiede guizzi armonici che lascino respirare un’aria nuova.
Come capita spesso di notare in molti artisti di oggi che propongono questo genere, sembra di sentire delle cover, pur nella bravura messa in campo nella resa degli originali. In ogni caso poi delle cover in realtà anche in questo album ci sono (vedi ad esempio “Boys don’t cry” dei The Cure o “Shout to the top” dei The Style Council), ma anche queste non convincono del tutto, forse più per la scelta di includerle in questo contesto che per la loro reale resa.
Appurato che non siamo di fronte al capolavoro di scrittura, si possono sottolineare allora le cose positive, che sono comunque davvero molte.
La cura sonora e l’espressività che ne emerge grazie al calore di una band come i The Numbers è un fattore positivo che spinge il lavoro in una direzione sicura e di piacevolezza; si sente che sono persone abituate a suonare insieme e lo fanno bene e con naturalezza, inoltre, dato da non trascurare in questo senso, tre di loro sono anche fratelli.
Questa curata attenzione si sposa in maniera ottima con l’espressività della band leader, Jamie, che sa di essere la padrona di casa e lo fa nella maniera migliore, stando esattamente al centro tra il caldo e il virtuoso e riuscendo a non far mai sentire né l’eccesso né la mancanza dei due elementi; infiocchetta in maniera definitiva l’album e ne garantisce la qualità complessiva.
Emerge anche un lato più intimo, da chitarra acustica e voce, come dimostra la parte finale del disco, e che forse confonde un po’ le acque, mettendo il dubbio che forse più che davanti ad un vero e proprio album si è davanti ad una riproposizione di quello che dovrebbe essere un loro live. Rimane un po’ l’amaro in bocca, poiché la continuità d’intenti sarebbe stata preferibile e probabilmente certe soluzioni trovano il loro perché in un live ma non in un disco, pur rimanendo ben eseguite.
Tra gli episodi migliori, in ogni caso, si segnalano “The Seeker”, una riproposizione grintosa e sudata del classico dei The Who, dove la voce di Jamie si presenta in tutte le sue potenzialità, lo slow “Stay”, e la strumentale dal sapore spy “The Fugitive”.