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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
Yungblud + Palaye Royale + Weathers, 31/10/2025, ChorusLife Arena, Bergamo
Live Report
2025  (Kinda, Live Nation)
LUCA FRANCESCHINI PT.2 LUCA FRANCESCHINI
all SPEAKER'S CORNER
01/11/2025
Live Report
Yungblud + Palaye Royale + Weathers, 31/10/2025, ChorusLife Arena, Bergamo
Come non passare un Halloween allo show più cool previsto per la serata? Uno Yungblud pazzo, entusiasta, genuino e perfetto simbolo del "nuovo" rock, dei Palaye Royale notevoli, trascinanti che dovrebbero solo che godere di un successo molto più ampio e degli Weathers incendiari che sono da recuperare in un gig dedicato. A voi il racconto della serata.

I concetti di “innovazione” e di “originalità” nella musica contemporanea sono oramai del tutto sorpassati, ammesso e non concesso che abbiano mai avuto un qualche senso nelle epoche passate. C'è stato, a pensarci bene, un periodo in cui gli artisti provavano a realizzare qualcosa di mai fatto prima, spingevano avanti l'asticella, radicalizzavano il linguaggio della tradizione, assolutizzavano qualche elemento e finiva che inventassero nuovi generi.

Da tempo non è più così: il nuovo trend oggi è il recupero del passato, che sia in forma filologicamente ricostruita, oppure rielaborato con un vestito sonoro maggiormente in linea con l'estetica contemporanea. E se qualche anno prima del Covid una bella fetta di mercato sembrava monopolizzata da un ritorno del Post Punk (etichetta con la quale, adesso possiamo liberamente confessarlo, abbiamo definito anche cose che non ci azzeccavano un bel nulla), da 4-5 anni a questa parte il nuovo oggetto di recupero sembra essere tutta quella miscela di Punk, Art Punk, Emo, Glam e quant'altro, che ha avuto anch'essa un come back notevole tra la seconda metà degli anni '90 e i primi anni del nuovo millennio, coi vari My Chemical Romance, Sum41, Good Charlotte, Avril Lavigne e compagnia bella.

Minestra riscaldata per la terza volta, dunque? Per certi versi è così, dall'altra parte è senza dubbio vero che queste nuove proposte suonano fresche e assolutamente in linea con la sensibilità della fantomatica Generazione Z, che può così fruire di artisti giudicati “al passo coi tempi” e allo stesso tempo recuperare un bel pezzo degli ascolti dei loro nonni e genitori (il recente successo della “Changes” di Yungblud durante il concerto di addio dei Black Sabbath a Birmingham costituisce un esempio alquanto significativo di tale dinamica).

 

E così eccoci qui, in una nuvolosa sera di Halloween, pronti ad assistere all'unica data italiana di un tour che è probabilmente la quintessenza di questo restyling in pompa magna del rock classico, contaminato da tutte le sigle elencate sopra.

La Chorus Life Arena di Bergamo, capienza 6.500 persone, è la venue che mancava per fare da raccordo tra i club del milanese e il Forum di Assago, permettendo dunque a quei nomi che si muovono sotto i diecimila spettatori ma che risulterebbero troppo grandi per un Alcatraz o un Fabrique, di trovare la propria casa in Lombardia. Impianto modernissimo, situato all'interno di una zona altrettanto nuova e moderna piena di negozi, ristoranti e servizi vari, ha il solo difetto di essere situato in uno dei peggiori epicentri del traffico europeo (di venerdì sera poi è praticamente irraggiungibile, a meno di partire con larghissimo anticipo) e di non avvalersi ancora una logistica degna di questo nome. Un esempio su tutti: per trovare la cassa accrediti (una casetta di legno assolutamente anonima e non segnalata) ho girato una buona mezz'ora e nessuno degli addetti in pettorina gialla che ho via via interpellato ha saputo darmi la benché minima informazione. Arrivato finalmente sul posto, ho trovato un buon numero di persone, tra fotografi ed ospiti dei vari artisti, in paziente attesa dei biglietti cartacei che, per qualche misteriosa ragione, non erano ancora stati recapitati. Morale della favola: sono arrivato un'ora prima dell'inizio e ho seriamente rischiato di perdermi la prima band. Per fortuna che poi, una volta risolto il problema, le operazioni di ingresso si sono rivelate straordinariamente agevoli, altrimenti è probabile che me ne sarei andato per la frustrazione.

 

Le luci si spengono nel momento esatto in cui raggiungo il mio posto in tribuna, dal lato sinistro del palco, e i Weathers fanno il loro ingresso on stage. È ancora presto e la maggior parte del pubblico sembra essere in giro a farsi i fatti propri (o forse, più realisticamente, bloccata nel traffico) per cui è un parterre più che dimezzato quello che accoglie il quartetto di Los Angeles.

Poco male, perché loro ci tengono comunque a mettere su uno show incendiario e nella mezz'ora che hanno a disposizione fanno di tutto per coinvolgere il pubblico, cosa che riesce alla grande, nonostante sia evidente che quasi nessuno sapesse chi fossero. Cameron Boyer è un discreto frontman e gli altri tre gli vanno dietro con sicurezza, producendosi in canzoni che sono una sorta di songbook adolescenziale dei primi Duemila, ma che risultano piacevoli e sufficientemente dotate di melodie vincenti.

Arriva anche un pezzo nuovo, che non si discosta molto dal resto del repertorio, e che potrebbe far presagire un album nel prossimo futuro (l'ultimo Are We Having Fun? risale al 2023). Divertente e assolutamente senza senso la cover di “Pink Pony Club” di Chapelle Roan, in una versione Emo Punk ultra veloce, che purtroppo non ha goduto dell'apprezzamento che avrebbe meritato.

Bravi, ma mi piacerebbe rivederli in uno show tutto loro.

 

L'entrata dei Palaye Royale è davvero dirompente, con una “Death or Glory”, title track del loro ultimo disco, che ha un riff killer e un andamento trascinante: tempo un minuto e sono già tutti impazziti, che saltano e ballano.

D'altronde il gruppo dei tre fratelli Remington Leith, Sabastian Danzig ed Emerson Barrett sa bene come conquistarsi le platee, anche quelle che non sono esattamente lì per loro. La loro miscela di Glam, Art Punk ed Emo Rock ha più di un punto di contatto coi My Chemical Romance, sebbene l'elemento gotico sia qui molto meno presente, e si avvale di canzoni validissime, suonate con un tiro davvero da paura. “Dying in the Hot Tub” (molto più selvaggia rispetto alla versione in studio) e una “Fucking in my Head” veramente devastante, sono state tra le cose più belle della serata, mentre le doti sceniche di Remington Leith, autentico animale da palco, hanno contribuito ad illuminare tutta la durata del breve set.

Nel finale, “Mr. Doctor Man” vede l'ospitata di Naska, cosa assolutamente sensata, se si pensa che l'artista di Loreto, pur radicato nella scena Urban, è attualmente l'italiano con la proposta più vicina a quella della band di Las Vegas.

Si congedano lasciandomi la consapevolezza che il mondo, ancora una volta, è ingiusto: i Palaye Royale sono fondamentalmente dei Mäneskin che hanno le canzoni. Che non stiano ottenendo neppure un quarto del successo avuto dei loro colleghi, è un qualcosa che non dovrebbe fare dormire la notte.

 

Il problema di Dominic Richard Harrison, in arte Yungblud, è probabilmente quello che dichiara a più riprese nel corso della serata, e cioè di essere “fottutamente pazzo” (in perfetto italiano). Non si potrebbero spiegare in altro modo le quasi due ore di show, per un totale di appena 14 brani proposti (l'altra possibilità è che si tratti di un artista Prog ma evidentemente non è questo il caso).

Tra una canzone e l'altra è stato un continuo di intermezzi lunghissimi, in cui la band reiterava il medesimo accordo per parecchi minuti, per fare da sfondo alle continue dichiarazioni d'amore al pubblico da parte del nostro, monologhi piuttosto poveri di contenuto (cinque minuti rubati per dedicare “Changes” ad Ozzy Osbourne, per dire), nonché code strumentali dilatate ma dove, a ben guardare, succedeva decisamente poco.

In mezzo, durante le esecuzioni, è stato un continuo urlare “salta!” e “mani in alto!” (anche qui in italiano) da parte di un artista che sembrava avere come unica preoccupazione quella di tenere sveglio il pubblico (che, fidatevi, non ne aveva proprio bisogno).

Insomma, Yungblud è un pazzo esagitato che gode un mondo nello stare sul palco ma che rischia di perdersi eccessivamente nel personaggio che si è costruito. I fan, che sono mediamente molto giovani e quindi probabilmente non hanno visto molti concerti, vanno in delirio ad ogni mossa e ad ogni virgola, ma la verità è che lo show è veramente troppo dispersivo, troppo lungo rispetto agli effettivi contenuti proposti.

A parte questo, è stato comunque un bello spettacolo: l'artista del South Yorkshire il palco lo sa tenere, ha una gran voce (la sua interpretazione della sabbathiana “Changes” è stata oggettivamente emozionante) e, seppure potrebbe far sorridere un vecchio come me vedere messe in fila tutte le mosse e la gestualità tipica di un tipico concerto rock, è certamente vero che il ragazzo ci sa fare e che merita di essere lì dove sta.

La band è ben rodata e suona potente e dinamica, mentre la presenza di un quartetto di violini (da quel che ho capito, li prende ogni sera dal paese in cui suona) allarga piacevolmente lo spettro sonoro e funziona soprattutto nei brani più barocchi e pomposi, come gli iniziali nove minuti di “Hello, Heaven, Hello”.

 

Scaletta pesantemente incentrata sull'ultimo Idols, che non sarà il suo lavoro migliore, ma che probabilmente risulta il più accessibile, quello che più omaggia la tradizione e che è zeppo di hit che potrebbero portarlo decisamente più in alto di dove sta ora.

In effetti i pezzi del disco funzionano, dalla title track ammantata di grandiosità epica, alla ritmata “Lovesick Lullaby”, alla ruffianissima “Lowlife” (che non fa però parte della tracklist del disco) fino ad una “Fleabag” che, come sempre, vede la partecipazione di un fan alla chitarra: il fortunato di questa sera se la cava benissimo, anche dal punto di vista della tenuta scenica, senza nessuna pressione; veramente bravo.

E ovviamente non mancano i singoloni “Ghosts” e “Zombie”, pezzi da artista planetario, ovviamente conservati per il finale e partecipati con singalong rumorosissimi.

Pochi i brani del passato (pesante, a mio parere, l'assenza di “Strawberry Lipstick”) anche se “Loner”, “Ice Cream Man” e soprattutto la mega hit “The Funeral” hanno infiammato a dovere l'arena.

Tornerò in Italia ogni anno finché non sarò morto”: questo il suo congedo (in inglese) dalla folla adorante. Genuino e assolutamente sincero nel suo atteggiamento entusiasta, Yungblud è oggi il miglior interprete di un “nuovo” rock che è probabilmente troppo declinato nell'universo estetico ed emozionale della Generazione Z per poter piacere agli ascoltatori più anziani e navigati. Detto ciò, se imparerà a prodursi in esibizioni più sostanziose, potrebbe davvero diventare il prossimo futuro del rock and roll.

 

Ultima notazione, prima di congedarmi: si sentiva da schifo. Avete presente il vecchio Palatrussardi di Milano, quello che avrebbero dovuto demolire quindici anni fa e che invece è ancora lì? Ecco, non proprio così da schifo ma quasi. Ero troppo laterale per le casse? Può darsi ma allora il problema è ancora più grave perché le tribune laterali occupano una buona fetta della capienza generale. Non voglio trarre conclusioni affrettate perché qui ci ho visto un solo concerto ma, tra logistica difficoltosa e resa sonora pessima, la voglia di ritornare non è proprio così alta...