È cresciuto parecchio, Manuel Gagneux. Quando l’ho scoperto io, nell’ormai lontano 2017, era ancora uno sperimentatore semi casalingo che aveva avuto l’idea di fondere il Black Metal con la tradizione Spiritual degli schiavi africani, ereditata dalla parte americana della sua famiglia. All’acerbo e autoprodotto EP di debutto aveva fatto seguito Devil is Fine, già più strutturato nelle composizioni, suonato da una vera e propria band (è da qui, di fatto, che il progetto ha smesso di configurarsi come un’iniziativa solista), il lavoro che di fatto ha cominciato a generare un po’ di hype attorno a questo nome.
Li avevo visti in azione Primavera Sound, credo fosse il 2018, e sebbene il tutto fosse ancora un po’ artigianale, la potenza e l’impatto li trovai davvero fuori dal comune.
Da allora non mi è più capitato di ascoltarli dal vivo, sebbene siano passati più volte dalle nostre parti. Di sicuro c’è che il musicista svizzero ha trovato il modo di evolvere la sua creatura, mantenendo l’originalità della formula (viviamo in un’epoca in cui questo vocabolo appare più desueto che mai, eppure per descrivere la loro proposta io lo userei ancora) e migliorando al contempo le composizioni, trasformando quello che poteva sembrare solo un bizzarro esperimento di ibridazione in un discorso coerente e credibile.
Grief, il disco uscito quest’anno, quinto capitolo del progetto se contiamo anche l’EP, ha segnato un altro passo significativo: quasi del tutto eliminate le influenze estreme (qualche linea vocale growl ogni tanto, sparute accelerazioni in doppia cassa ma davvero nulla di più), sono invece cresciute le influenze Spiritual e Gospel, è arrivata qualche contaminazione elettronica e una maggiore dose di melodia. I fan della prima ora probabilmente storceranno il naso, l’effetto derivativo è senza dubbio maggiore, ma lo è altrettanto la crescita di valore e consapevolezza.
Il Santeria questa sera è sold out, segno evidente che il pubblico nostrano (presenti però anche tanti stranieri, come ormai consuetudine nei live a Milano) ha gradito anche quest’ultimo capitolo.
Prima di loro, a rendere ancora più imperdibile la serata, ci sono gli Amalekim: la band del musicista polacco Brunon Stawecki dopo il primo disco ha stravolto completamente la formazione, ha fatto entrare tre musicisti italiani (Niccolò Paracchini al basso, Michele Varini alla chitarra e Francesco Mainini alla batteria) e prodotto un album straordinario come Avodah Zarah, senza dubbio una delle uscite migliori dello scorso anno in ambito estremo, che le ha fruttato anche un prestigioso contratto con la Avantgarde.
Dal vivo sono magnifici, potenti e solenni allo stesso tempo, una scenografia scarna ma efficace e curata nei minimi dettagli, l’utilizzo di luci basse a rendere il tutto ancora più spettrale, una potenza e una precisione esecutiva assolutamente invidiabile. I brani dell’ultimo disco sono ammantati di un’aura oscura veramente affascinante ma contengono allo stesso tempo notevoli sprazzi melodici, che non vanno tuttavia ad intaccare la furia iconoclasta dell’insieme.
L’obiezione potrebbe essere che suonano un po’ troppo scolastici, fin troppo attenti agli stilemi della moderna declinazione del genere; si tratta di un’obiezione sterile, a mio parere: il livello di scrittura è altissimo e, a meno di ammettere fantasiose contaminazioni, il Black Metal è questo qui, non è che si possa andare troppo lontano.
Un set meraviglioso, quello degli Amalekim (impreziosito oltretutto da un’ottima resa sonora) che ha il solo difetto di essere durato troppo poco. Speriamo di poterli rivedere presto in veste di headliner.
Sono le 21.30 precise quando le luci si spengono nuovamente e parte l’intro di “The Bird, The Lion and The Wildkin”, durante la quale gli Zeal & Ardor fanno il loro ingresso on stage. Si parte a sorpresa con la vecchissima “Wake of a Nation”, che nell’odierna resa live acquista senza dubbio una marcia in più, fondendosi alla grande col resto del repertorio, in perfetta continuità con la successiva “Götterdämmerung”, tra i classici della formazione, durante la quale il concerto decolla definitivamente.
Sul palco sono in sei, come ormai da tempo: Manuel Gagneux canta e suona la chitarra, ed è affiancato dalle backing vocal di Denis Wagner e Marc Obrist, con lui sin dagli inizi. A prima vista possono sembrare superflui, ma si capisce ben presto che i loro botta e risposta con la voce solista nei momenti più Gospel e i cori sulle linee melodiche più complesse, costituiscono decisamente un valore aggiunto. La chitarra di Tiziano Volante svolge un lavoro egregio come sempre, mentre la sezione ritmica composta da Lukas Kurmann (basso) e Marco Von Allmen (batteria) risulta assolutamente devastante.
I nostri offrono una prestazione potentissima e senza sbavature, dominata dal mid tempo, anche se non si rinuncia a qualche accelerazione deflagrante, soprattutto quando si fa incursione nel materiale più datato. I brani di Grief in scaletta non sono tantissimi ma bisogna dire che funzionano: in particolare “Sugarcoat”, con le sue contaminazioni vicine all’Industrial, o all’inedito tentativo melodico di “To my Ilk”, qui omaggiata da una versione davvero convincente; molto bene anche episodi dalla scrittura più tradizionale come “Kilonova” e “Clawing Out”, ben amalgamati col resto del repertorio.
A proposito di questo, non mancano le ultra collaudate “Gravedigger’s Chant” e “Tuskegee”, nonché i classici della prima ora “Blood in the River” e soprattutto “Devil Is Fine”, suonate in versione ultra potente e trascinate dall’entusiasmo del pubblico (a tal proposito, il calore e la partecipazione sono state incredibili per tutta la durata dello show e hanno impressionato visibilmente anche la stessa band).
Finale splendido e ad alta intensità, con le superbe mazzate di “Feed the Machine” e “Death to the Holy”, e dei bis nei quali ha spiccato una memorabile “Built on Ashes”.
Settanta minuti senza respiro, la dimostrazione (se ce ne fosse ancora bisogno) che anche in sede live il progetto Zeal & Ardor è ormai totalmente credibile. Vedremo cosa ci riserverà il futuro, perché le evoluzioni di Grief lasciano pensare che le sorprese non siano finite qui.