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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
17/07/2017
Hüsker Dü
Zen Arcade
Gli Hüsker Dü entrano in studio, attaccano i jack, suonano, registrano in presa diretta (e si è già detto del “buona la prima” per 22 tracce), effettuano il missaggio e se ne escono 85 ore dopo (più o meno il tempo che impiega Peter Gabriel per decidere in quale punto di una sua canzone inserire un beat di percussione) coi master del prodotto finito. E si sente.

Zen Arcade degli Hüsker Dü è un maelström che schiuma tra i ghiacciai della rabbia e dell’umana desolazione, tentativo ultimo di resistenza disperata prima della resa, dove violenza, amore e spiritualità si fondono alchemicamente liberando dalle pastoie delle convenzioni sociali la catarsi (sonica) definitiva. Un documento artistico e umano forse unico nella storia della musica del secondo Novecento, a giusta ragione ritenuto uno dei più importanti e influenti in tema di popular music.

Mai come in questo caso, il tanto abusato aggettivo “monumentale” calza come un guanto. Piero Scaruffi lo definisce “la Divina Commedia del punk” e, per quanto possa sembrare eccessiva, credo sia la definizione più illuminante e rivelatrice.

Eccessivo e stupefacente Zen Arcade lo è senza ombra di dubbio, se si pensa che nasce in sole 85 ore, tra registrazione e missaggio: quattro facciate (il vinile era doppio), 23 brani in totale – di cui 22 sono prime take accalappiate in presa diretta – incastonati come diademi su una corona di spine; un vero e proprio “concept” che ha come tema il rito di passaggio tra adolescenza ed età adulta.

All’uscita (era il 1984) qualcuno azzardò la temeraria definizione di “prog-core”: tremenda, sono d’accordo, ma nella sua mediocre insulsaggine fa emergere una parte di verità, sebbene si tratti della parte più superficiale.

Con alle spalle due album – Land Speed Record (1981), hardcore allo stato brado carpito “on stage” che raggiunge livelli di parossismo prossimi all’autoparodia; e Everything Falls Apart (1982), nel quale già si scorgono illuminazioni melodiche zampillanti da un caos appena più decifrabile – e un EP, Metal Circus, che si fa ricordare soprattutto per la gemma “Diane” – i tre ragazzotti di St. Paul, Minnesota, che rispondono ai nomi di Bob Mould (chitarra e voce), Grant Hart (batteria e voce) e Greg Norton (basso), erano ben lungi dall’immaginare, mentre varcavano la soglia dei Total Access Studios di Redondo Beach, che quei 23 brani avrebbero rappresentato non soltanto il sommo vertice espressivo dell’hardcore, bensì uno degli album più influenti di ogni epoca.

Anche perché, va detto, fino a quel momento gli Hüsker Dü erano considerati roba (comunque buona) da college e dunque, in quanto espressione del solito “ribellismo” tipicamente adolescenziale, non ancora maturi (quale che sia il significato del termine) per un mercato più adulto. Del quale, detto per inciso, a loro non poteva fregare di meno.

C’è poco da raccontare sulle sessioni di registrazione che hanno partorito Zen Arcade.

Gli Hüsker Dü entrano in studio, attaccano i jack, suonano, registrano in presa diretta (e si è già detto del “buona la prima” per 22 tracce), effettuano il missaggio e se ne escono 85 ore dopo (più o meno il tempo che impiega Peter Gabriel per decidere in quale punto di una sua canzone inserire un beat di percussione) coi master del prodotto finito. E si sente.

Devastante, spontaneo, carico dell’ormai proverbiale “urgenza espressiva” (che qui si fa anche fisica) e meravigliosamente imperfetto, l’album risente della mancata messa a fuoco di decine di idee – brillanti, per la maggior parte – appena abbozzate, che ne elevano inspiegabilmente il fascino, la magnificenza e la grandezza. È solo rock and roll? Forse che sì, forse che no. Senz’altro è uno di quei dischi che suscitano un certo timore reverenziale, tanto smodate furono (e sono tutt’ora) le lodi che attirò.

Si tratta, insomma, di un’opera che entra a pieno merito in un ipotetico “canone rock”, e il cui valore non è pertanto negoziabile. Gli angusti limiti musicali e testuali dell’hardcore si estendono per accogliere una rilettura più intimista del sociale, meno convenzionalmente politicizzata, il cui sguardo sul mondo scaturisce dall’anarchia esistenziale e da una sensibilità pop che, sulle increspature formatesi nell’abrasività del suono, fa risplendere, ammalianti, piccole perle forgiate da un gusto non comune per la melodia (i Jesus And Mary Chain di Psychocandy ne saranno diretta filiazione).

Le idee, si diceva, sono decine e per lo più incompiute: il folk- punk della ballata mozzafiato “Never Talking To You Again”, il sarcastico raga di “Hare Krsna”, lo splendido pop-core di “Pink Turns To Blue”, le sperimentazioni, a tratti confusionarie, a tratti ingenue, di “Dreams Reoccurring”; e poi interludi pianistici, latrati ultra-core, digressioni psichedeliche, sfumature prog accidentali…

Gli ingredienti per un trito e drammaticamente goffo polpettone ci sarebbero tutti, eppure una volta arrivati (un po’ faticosamente, bisogna ammetterlo) in fondo, la sensazione che rimane è ben altra e il tutto, pur nella sua espressività non mediata, rimane miracolosamente assieme in un disegno quasi perfetto. Il primo ascolto lascia tramortiti; ma subito si manifesta il desiderio di riascoltarlo per capire, penetrare, decifrare queste scosse di energia incontenibile, tenute assieme da trame archetipiche, pulsioni primitive e viscerali. Gli Hüsker Dü riescono a coniugare gli opposti (odio/amore, violenza/pace, rabbia/dolcezza) dando vita a rivelazioni inedite: Zen Arcade è una sorta di grimorio punk nel quale Mould & Hart, come alchimisti postmoderni, dimostrano di aver fatto propria la formula del solve et coagula.

Il tentativo di trasmutare il piombo dell’alienazione esistenziale nell’oro dell’espressione del “Sé” si realizza compiutamente nell’accettazione consapevole dell’umana imperfezione.