Ci sono artisti che attraversano le epoche senza mai perdere l’urgenza originaria e Bob Mould è uno di questi. Quarant’anni di carriera sulle spalle, una storia che si confonde con quella dell’alternative americano, ma una vitalità che non conosce cedimenti. Dai tempi fulminanti degli Hüsker Dü (il trio di Minneapolis che negli anni Ottanta reinventò l’hardcore aprendolo alla melodia) fino alla stagione luminosa dei Sugar nei Novanta, passando per una carriera solista sempre coerente e mai compiaciuta, Mould ha incarnato un’idea di rock come espressione pura, viscerale e libera da sovrastrutture.
Oggi, a più di sessant’anni, l’ex ragazzo furioso del Midwest continua a calcare i palchi con la stessa intensità di allora, dimostrando che la rabbia e la malinconia possono convivere in un unico gesto sonoro: un uomo, una chitarra elettrica e un muro di suono che sembra provenire da un’intera band.
È in questa veste essenziale che Bob Mould si presenta al Legend Club di Milano, seconda delle due date italiane di questo mini-tour elettrico (la sera prima era al Monk di Roma). Il locale è gremito, pieno fino all’ultima fila, un dettaglio non scontato vista la concorrenza dei Turnstile all’Alcatraz. Ma il pubblico del Legend è diverso: l’età media è alta, i volti sono quelli di chi ha vissuto la stagione hardcore degli anni Ottanta e Novanta, i reduci di un’epoca che riconoscono in Mould una sorta di fratello maggiore, uno che non ha mai tradito la causa.
A rompere il silenzio ci pensa Che Arthur, musicista e produttore di Chicago, un habitué della scena indie statunitense. Solo sul palco, chitarra acustica e voce, regge mezz’ora di set con una presenza che non ha bisogno di orpelli. Le sue canzoni, tratte anche dal nuovo album in uscita Describe This Present Moment, intrecciano delicatezze folk e schegge punk, linee melodiche limpide che si infrangono su improvvisi passaggi più ruvidi.
Arthur è un artigiano del suono, uno che conosce bene il mestiere: da anni alterna dischi solisti a esperienze in band come i Pink Avalanche, sospesi oggi in un lungo hiatus ma centrali nella definizione del suo linguaggio musicale. L’accoglienza è calorosa e attenta, non di circostanza: non è facile intrattenere da solo un pubblico in attesa di una leggenda, ma Arthur lo fa con misura e sensibilità, preparando il terreno a quello che sarà un concerto denso e quasi catartico.
Quando Bob Mould sale sul palco, il Legend si tinge di rosso. Le luci sono basse, l’allestimento ridotto al minimo: nessuna scenografia, nessuna proiezione, nessun artificio visivo. È un concerto che punta tutto sull’essenza, quasi uno showcase privato più che un live da tour. Le regole sono chiare: niente foto, niente video e ciò che accade resta qui, nel presente. Ed è proprio questa la sensazione dominante per tutta la serata, quella di assistere a un momento irripetibile.
Mould imbraccia la chitarra elettrica come se fosse un’estensione del suo corpo. Nonostante l’assenza di una band, il suono è pieno, corposo e abrasivo: i colpi di plettro disegnano ritmiche martellanti, le corde vengono percosse, maltrattate, domate. È un modo di suonare che richiama il miglior Pete Townshend, con la stessa violenza controllata, la stessa capacità di far convivere energia e precisione. Fin dalle prime note di “The War” il pubblico capisce che non si tratta di una serata nostalgica. Mould non è qui per celebrare un passato, ma per dimostrare quanto le sue canzoni, in qualsiasi epoca, conservino una freschezza disarmante.
La scaletta scorre come un flusso continuo, senza pause se non per accordare la chitarra o bere un sorso d’acqua. Non c’è spazio per le chiacchiere: un brano dietro l’altro, con la disciplina di un maratoneta e l’intensità di chi suona come se ogni canzone potesse essere l’ultima. Si passa con naturalezza dai classici degli Hüsker Dü (“Flip Your Wig”, “I Apologize”, “Celebrated Summer”) alle gemme dei Sugar (“Hoover Dam”, “If I Can’t Change Your Mind”) fino ai brani più recenti, come “Here We Go Crazy”, che ottiene una delle migliori risposte del pubblico, invitato a cantare il ritornello finale. “That was excellent!”, esclama Mould soddisfatto, e per un istante il suo volto si scioglie in un sorriso sincero.
Ad un certo punto del concerto, Mould si concede un momento di riflessione. Parla con voce bassa, quasi scorata, della situazione politica negli Stati Uniti, dell’aria di frustrazione e impotenza che attraversa il suo paese. "Da qui in poi farò tutte le canzoni tristi", dice, "così poi magari domani ci svegliamo e ci accorgiamo che è tutto finito". E così il set si tinge di un’ombra malinconica: arrivano “Hardly Getting Over It”, “Too Far Down”, “Never Talking to You Again”, tutte dagli Hüsker Dü, eseguite con una grazia fragile che commuove. In questi momenti emerge l’altra faccia di Bob Mould: non solo il chitarrista incendiario, ma anche il songwriter capace di una profondità emotiva che pochi gli riconoscono.
La tensione cresce con “See a Little Light” e l’apparente chiusura affidata a “If I Can’t Change Your Mind”, dove la melodia perfetta degli Sugar si trasforma, nella sua versione elettrica minimale, in una confessione privata. Ma non è finita: quando il concerto sembra giunto al termine, Mould regala ancora due pugni di storia, “Something I Learned Today” e “Makes No Sense at All”, chiudendo con l’energia cruda degli Hüsker Dü e salutando con un “See you soon” che tutti sperano non sia solo una formula di rito.
Un’ora e venti di concerto bastano a ribadire la grandezza di Bob Mould, ma anche la sua essenzialità. Non servono amplificatori torreggianti, né batteristi indiavolati per restituire la potenza di queste canzoni (anche se prima o poi lo vorremmo vedere in trio con Jason Narducy e Jon Wurster): la loro forza sta nella scrittura, nella capacità di unire melodia, rabbia e introspezione. E, ascoltate così, nude e crude, emerge un’evidenza spesso taciuta: che non esistono vere cesure tra Hüsker Dü, Sugar e carriera solista, è tutto parte di un unico corpus, coerente e compatto, alimentato dalla stessa urgenza espressiva. Lo stesso Mould lo ammette con autoironia, tra un pezzo e l’altro: “Ho fatto troppi dischi!”, ma la verità è che non ne ha fatti abbastanza. Ogni canzone testimonia un tratto del suo percorso, che vanno a comporre un autoritratto di rara sincerità.
Bob Mould arriva in Italia a ridosso dell’uscita di 1985: The Miracle Year, la raccolta che celebra uno degli anni più intensi degli Hüsker Dü, quello di Flip Your Wig e New Day Rising. Quarant’anni esatti dopo, quelle stesse canzoni risuonano ancora con la stessa urgenza, la stessa potenza liberatoria. Non c’è retorica, non c’è nostalgia: solo il suono di un artista che continua a credere nella musica come forma di resistenza.
Al termine del concerto, mentre le luci del Legend si riaccendono e il pubblico esce lentamente, resta una sensazione chiara: aver assistito a qualcosa di prezioso, un frammento di storia ancora viva. Bob Mould non ha bisogno di reinventarsi o di inseguire tendenze, gli basta essere sé stesso, con quella chitarra che suona come una voce interiore, con quella passione che non conosce età. In fondo, non serve altro: solo un uomo, il suo strumento, e quarant’anni di canzoni che continuano a fare male nel modo più bello possibile.

