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REVIEWSLE RECENSIONI
16/09/2025
Shame
Cutthroat
Gli Shame si ribellano al ruolo di outsider del post-punk con un disco originale e coraggioso.

Songs of Praise risale al 2018, un anno prima di Dogrel, e nonostante appartenga già all’attuale generazione post-post punk britannica, non sembra aver ricevuto un adeguato riconoscimento (tanto quanto i successivi due album degli Shame, del resto). Eppure contiene brani che non hanno nulla da invidiare alle tracce delle playlist più in voga dell’ultimo decennio, forse perché, complice lo spartiacque della pandemia, al momento della pubblicazione non si percepiva ancora tutta l’urgenza di musica deprimente e consolatoria allo stesso tempo, gli elementi costitutivi del genere attribuito agli Shame, gli stessi che hanno eletto Idles e compagnia bella a colonna sonora rappresentativa (e straordinaria) della cultura alternativa del nostro tempo.

Ne è derivato il paradosso che conosciamo tutti: la band di Charlie Steen ha aperto da supporter proprio i concerti dei Fontaines DC, nel corso del tour di quest’anno. Tutt’altro che una condanna, sia ben chiaro, perché è anche grazie al successo di Romance che gli Shame sono stati ripescati. Il punto è che il rock è una cosa seria, c’è gente che è morta per la causa, anche suicidandosi, e a fronte di atteggiamenti piacioni e pose crepuscolari, lo svacco e l’ironia non risultano mai vincenti nel mercato dell’idolatria. A maggior ragione quando non si mastica con perizia quel carisma che permette una corretta trasmissione del processo di sdrammatizzazione dei paradigmi di ciò che si professa e che, magari, si tenta di sovvertire anche attraverso modalità non convenzionali.

 

Questa è la narrazione mainstream con cui è stato recepito il quarto disco degli Shame, Cutthroat, un messaggio di cui è il gruppo stesso a fornire per primo una sintesi che suona più come un vaffanculo che un’autocommiserazione (il vittimismo, nell’industria musicale, funziona solo una volta che vai all’altro mondo). Gli Shame non c’entrano nulla con il suono del momento. Semmai ne fanno parte un po’ per caso, figli comunque di un’estetica musicale che permea ogni approccio artistico e la cultura di quelle latitudini (da noi non pervenuti, ça va sans dire).

Una chiave di lettura che consente di mettere in risalto una serie di qualità di Cutthroat che emergono chiaramente anche solo dopo pochi ascolti. Non è un caso che tra le tracce che compongono il disco si trovi davvero di tutto.

 

Già a partire dalla title track si capisce che questo non è un disco come tutti gli altri. Il testo declamato delle strofe su un asciutto riff monocorde di chitarra e basso, alternato al ritornello accattivante e accompagnato da un tappeto di synth, rispecchia le ambizioni che pervadono il disco. “Cowards”, secondo pezzo ed esaustivo elenco di vigliacchi della nostra società, è introdotto dalla stessa batteria di “Rock’n’roll” dei Led Zeppelin, ma siamo nel 2025 e così prosegue come un devastante e caotico inno al pogo, con tempi e modi dettati da un cantato, anzi, urlato alla Joe Talbot.

Un motivo per cui il gap con l’indie country rock di “Quiet Life” suoni ancora di più singolare. Nelle successive “Nothing Better” e “Plaster” ritroviamo il suono consolidato degli Shame. Un brano tiratissimo, prettamente chitarristico e dall’anima garage, il primo. Un pezzo di maggior respiro ma altrettanto potente e dal ritornello decisamente bluriano, il secondo. “Spartak”, uscita come singolo, è una ballad trascinante, a partire dal riff di chitarra iniziale, e sta all’album come “One Rizla” stava a Songs Of Praise.

La diritta e potente “To And Fro”, indie-rock da manuale, compensa l’andamento cool e dance di “Lampião”, sicuramente il momento più originale dell’album nonostante i suoi quasi 30 secondi di inspiegabile fade out. “After Party” conferma i BPM della canzone precedente e la vocazione sperimentale della band, tra linee di sequencer e rullate di rototom che non si sentivano dai tempi di “Rock The Casbah”. Cutthroat si conclude con la dirompente e aggressiva “Screwdriver” e il pop danzereccio di “Axis Of Evil”, in cui l’indole elettronica del chitarrista compositore Sean Coyle-Smith fa da supporto allo sfoggio di controllata attitudine melodica di Charlie Steen. Due canzoni inframezzate dall’unica traccia lenta del disco, la struggente “Packshot”, un brano il cui crescendo finale lascia l’ascoltatore con la pelle d’oca.

 

Avendo esordito poco più che ragazzini, gli Shame si trovano dopo quattro LP nell’invidiabile condizione di suonare da veterani nonostante siano giovanissimi. Se cambiano nei loro dischi non è certo per inseguire le mode del momento, e Cutthroat ne è la prova. Il nuovo album resta fedele al sound della band, risultando allo stesso tempo modernissimo. Un’opera in cui Charlie Steen e i suoi compagni di viaggio continuano a mantenersi alla larga dai luoghi comuni pur rientrando nei canoni classici di uno stile di cui, è sempre un bene ricordarlo, sono stati tra i precursori.