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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
19/09/2025
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... i Nation of Language

Quando nel 2020, dopo una serie di singoli di preparazione, hanno esordito con Introduction, Presence, potevano semplicemente sembrare un gruppo di ragazzini con influenze appartenenti ad un’epoca in cui non erano ancora nati: Human League, New Order, in generale tutto il movimento New Romantic, con le melodie agrodolci a sgorgare sopra un tappeto di sintetizzatori. In un mondo flagellato dal Covid, con ben altro a cui pensare se non la musica, il trio newyorchese pareva l’ennesimo prodotto di una retromania sempre più invasiva e che in altri campi si manifestava con il successo strepitoso di una serie tv come Stranger Things ed il suo paradossale ritorno in classifica di canzoni di quarant’anni fa (vedi il caso clamoroso di “Running Up That Hill” di Kate Bush).

Dopo un sophomore come A Way Forward, che ne ha confermato il trademark stilistico pur migliorando notevolmente la scrittura, il successivo Strange Disciple ha fatto capire che i Nation of Language, pur negli inevitabili riferimenti, stavano maturando un’identità più complessa, accantonando spesso le soluzioni più semplici in favore di canzoni più elaborate e dotate di un mood più scuro e talvolta cerebrale.

Il passaggio alla Sub Pop e l’uscita del quarto lavoro Dance Called Memory paiono aver completato la metamorfosi: i Nation of Language non pretendono certo di proporre qualcosa di nuovo, ma allo stesso tempo risulta ormai riduttivo catalogarli semplicemente come l’ennesimo gruppo Synth Pop che omaggia i grandi del passato.

Incontro Ian Richard Devaney (voce e chitarra) e Aidan Noell (tastiere e sintetizzatori) in videochiamata, durante un caldo pomeriggio di metà luglio: simpatici e molto disponibili, i due mi hanno parlato del nuovo disco ma si sono aperti anche su diversi aspetti, lavorativi e personali, di una band che può senza dubbio considerarsi tra le migliori uscite in questi ultimi anni.

 

 

Che cosa state facendo in questo periodo, in attesa che il disco venga pubblicato e di partire per il tour?

Ian: Al momento stiamo provando parecchio: il lavoro più grosso è quello di programmare i Synth che usiamo dal vivo con i suoni delle nuove canzoni, in modo tale che possano suonare il più possibile come nella versione in studio. È una cosa molto divertente da fare, suonare con i propri strumenti ed esplorarne le potenzialità.

 

Parliamo del nuovo disco, Dance Called Memory: lo sto ascoltando da alcune settimane e mi piace molto, seguo la band dagli inizi e mi pare proprio che andiate sempre progressivamente migliorando, uscita dopo uscita. Nello specifico mi pare che, rispetto ai vostri primi due album, vi stiate sempre più muovendo verso una direzione più sofisticata: le canzoni sono meno immediate e non ci sono troppe melodie catchy, in generale mi sembra tutto molto più ricercato, che cosa ne pensate?

Ian: lo descriverei come “meditativo”: è un disco che veicola emozioni tristi, pesanti; vorrei che i fan facessero un’esperienza di ascolto, in questo senso i Radiohead sono un buon termine di paragone: le loro canzoni sono molto tristi ma allo stesso tempo sono piacevoli e la loro musica costituisce una sfida per l’ascoltatore. È vero che su questo disco ci sono meno canzoni upbeat, ma allo stesso tempo abbiamo voluto che l’interlocutore si trovasse coinvolto.

 

Aidan, vuoi aggiungere qualcosa?

Aidan: Ci sono un paio di canzoni che sono molto ballabili ma in generale sono d’accordo con quello che dici: nei primi due dischi c’erano più melodie di facile presa, che potevano essere memorizzate velocemente, però anche qui ci sono cose d’impatto; semplicemente, ci vuole più tempo per assorbirle.

Ian: in passato comunque era già successo che alcune delle canzoni preferite dai fan fossero quelle più lente, più meditative: probabilmente anche questo mi ha dato il coraggio di spingere di più in questo senso.

 

Avete lavorato ancora con Nick Milhiser, che si è occupato anche dei vostri dischi precedenti, non ricordo se di tutti o solo di alcuni.

Ian: Solo di alcuni.

 

È cambiato qualcosa nel vostro modo di lavorare con lui?

Ian: Abbiamo modificato qualcosina in studio, abbiamo utilizzato tipi diversi di sintetizzatori e di chitarre, proprio perché non volevamo fare sempre le stesse cose, volevamo provare soluzioni differenti. Sono cose probabilmente un po’ da nerd, però trovo che abbiamo infuso maggiore eccitazione nel processo di registrazione, perché non essere al 100% a proprio agio con gli strumenti che si usano, porta di volta in volta più curiosità nell’approccio e questo non può che fare bene.

 

Ho letto anche che avete sperimentato molto con le batterie, e avete fatto un paragone con i My Bloody Valentine, cosa che mi ha un po’ stranito perché non è esattamente il primo gruppo che verrebbe in mente parlando di voi.

Ian: Quando Nick era giovane la prima musica a cui si è appassionato è stata l’Hip Hop, che si basa proprio sul campionamento di elementi presi da altri canzoni, comprese le batterie. Ci ha portato questo campionatore degli anni ’90, davvero un pezzo meraviglioso di tecnologia, e con questa abbiamo preso diversi drum break e li abbiamo rielaborati e rimescolati tra loro. È stato davvero eccitante, un altro tipico esempio di una cosa che non facciamo normalmente nei nostri album e che ha infuso un respiro più ampio a questo lavoro.

 

Come scrivete le canzoni di solito? Avete cambiato qualcosa a questo giro o è rimasto tutto come al solito? In generale mi piacerebbe sapere se avete dei compiti precisi all’interno della band o se fate tutto assieme.

Ian: In genere scrivo tutto io però per questo disco la maggior parte delle canzoni è stata composta alla chitarra acustica, semplicemente mettendomi lì a strimpellare qualcosa. È molto strano che un nostro pezzo nasca così perché di solito comincio da un beat, ci metto sopra delle linee di Synth, poi aggiungo un basso… in questo caso invece ho lavorato in maniera molto più tradizionale, come probabilmente avrebbe fatto Leonard Cohen (ride, NDA): la chitarra per noi non è mai stata uno strumento centrale nel processo di scrittura.

 

Quindi avete aggiunto i sintetizzatori in un secondo momento, dopo le parti di chitarra?

Ian: Esatto.

 

C’è una ragione particolare per cui secondo voi è accaduto questo o, semplicemente, è accaduto?

Ian: sono stato un po’ depresso per un certo periodo di tempo e quando sei depresso, suonare la chitarra è un ottimo sistema per tenere la mente occupata. Stavo semplicemente cercando di portare la mia mente in una direzione tale per cui potersi distrarre, e quando suoni in continuazione tutte queste cose alla chitarra, arriva il momento in cui dici: “Hey aspetta, questa roba qui è veramente buona!” (ride, NDA).

 

E tu, Aidan: contribuisci in un secondo momento quando senti il pezzo, aggiungendo dei Synth e delle parti vocali?

Aidan: Di solito non faccio niente finché non andiamo a registrare. A quel punto aggiungo qualche tastiera e qualche armonia.

Ian: Però mi vengono in mente anche alcune parti di batteria che tu hai suggerito, imitando il suono con la bocca… (risate, NDA).

Aidan: Sì è vero! La verità è che non ho le conoscenze tecniche necessarie per cui a volte intuisco che cosa si potrebbe mettere su una canzone o che tipo di direzione si potrebbe prendere, però non riesco a trovare il modo di descriverlo; per fortuna Ian riesce sempre a capire che cosa intendo e sa tradurre tutto il mio nonsense in operazioni concrete (risate, NDA).

 

Dance Called Memory è un titolo molto suggestivo: da dove l’avete preso?

Aidan: Viene da un libro della poetessa canadese Anne Carson, probabilmente la mia autrice preferita, che è intitolato The Beauty of the Husband. Al termine delle registrazioni stavamo cercando di trovare un titolo che andasse bene e abbiamo cercato nei vari testi delle canzoni per vedere se potessimo estrapolare qualcosa, ma non c’era niente che ci convincesse davvero. Siamo andati quindi in una libreria per trovare ispirazione e lì mi sono imbattuto in questo verso, “Dance called memory”, che mi sembrava riflettesse bene il contenuto delle canzoni, le sensazioni che esprimevano. L’ho proposto a Ian e anche lui ne è rimasto colpito.

Ian: Dopo me l’ha mostrato per la prima volta la mia mente continuava a tornarci sopra: credo che rifletta in pieno il modo in cui funziona la nostra memoria, il modo in cui ci spostiamo di continuo su diverse cose; nella mia mente in particolare trovo che ci sia parecchio movimento, è un continuo immergersi, tessere fili… l’idea per cui la memoria sia una perpetua danza con il proprio passato mi ha impressionato molto.

 

C’è un pezzo, “I’m Not Ready for a Change”, che se non ho capito male parla di relazioni che finiscono e della difficoltà ad accettare che a volte non si riesca a stare insieme per sempre, che i legami abbiano una data di scadenza.

Ian: Sì, è come dici, quando l’ho scritta c’erano alcune rapporti nella mia vita che stavano cambiando e la stessa cosa stava accadendo ad alcuni miei amici che erano impegnati in relazioni lunghe, che sono finite più o meno nello stesso momento; nello stesso periodo è anche morto mio padre, e abbiamo cambiato casa per la prima volta in dieci anni, abbandonando il posto dove io e Aidan abbiamo iniziato la nostra convivenza… così tanti cambiamenti nello stesso tempo! È un qualcosa che ti travolge, che ti spinge a desiderare che la vita possa rallentare un po’, anche se è un qualcosa che non accade mai! Quindi direi che è una canzone che esprime la sensazione che si prova nel constatare come tutto nella vita cambi in modo così veloce.

 

Il video che avete realizzato per il brano è molto semplice, siete voi che suonate in una stanza, nient’altro: come mai avete scelto di non utilizzare immagini associate al testo del brano?

Ian: Non abbiamo nessun altro video in cui suoniamo e in questo pezzo uso la chitarra molto di più del solito, per cui abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea filmarci mentre suoniamo, anche perché per altri video avevamo già altre idee da sviluppare. Lo abbiamo girato nello stesso studio in cui abbiamo fatto quello dell’altro singolo “Inept Apollo” ed è stato divertente perché mentre eravamo in una parte della stanza a farne uno, nell’altra cominciavano già a preparare per quell’altro. Quello che volevamo fare era…

Aidan: … massimizzare il tempo all’interno di questo spazio enorme…

Ian: Esatto, si trattava di un grosso magazzino, molto costoso da affittare, per cui volevamo fare il più possibile nel minor numero di ore!

 

A proposito di “Inept Apollo”, che tra parentesi mi sembra una delle canzoni del disco che sono più vicine al vostro vecchio stile.

Ian: Sì è vero.

 

Sono curioso di sapere di che cosa parla il testo: a leggerlo sembrerebbe una canzone d’amore ma non mi è molto chiaro il riferimento mitologico. chi sarebbe questo “Apollo inetto” del titolo?

Ian: Apollo è il dio di molte cose ma è sopratutto associato alla musica e alla danza. Questa canzone parla in gran parte del sentirsi tristi e di come l’unica cosa di positivo che si abbia nella vita sia la musica; nel mio caso molto spesso è stato così, per lo meno. Sento su di me anche una sorta di “sindrome dell’impostore”: sono sul palco a cantare, a ballare, ma allo stesso tempo percepisco che sia un imbroglio, che l’Apollo inetto sono io, perché sono lì a fare il mio spettacolo ma non sono per un nulla un dio della musica! Il punto quindi è: ho questa passione, non sono bravo ad esercitarla ma devo comunque andare avanti, provarci il più possibile anche se, almeno nella mia testa, sarò sempre destinato a fallire.

 

Nel comunicato stampa di presentazione del disco avete fatto un interessante discorso mettendo a confronto i Kraftwerk e Brian Eno, rispetto al rapporto tra musica e tecnologia, tra ciò che è umano e ciò che è prodotto da una macchina.

Ian: Sia i Kraftwerk che Brian Eno sono due grosse influenze per noi. Nel loro periodo di massimo splendore i Kraftwerk cercarono di rimuovere ogni componente umana dalla loro musica, e questo fu davvero una cosa radicale da fare, un qualcosa che li distinse totalmente dal resto degli artisti della scena; in questa nostra epoca, in cui fondamentalmente ci sono dei robot che possono produrre musica, trovo invece molto più interessante l’idea di commettere errori, di veicolare l’imperfezione, perché questo è ciò che ci rende umani. In questo senso Brian Eno, quando un sintetizzatore che usava si rompeva, non lo riparava, lo teneva così perché preferiva che suonasse come effettivamente suonava, piuttosto che come avrebbe dovuto. Quando eravamo in studio Nick ci diceva sempre… com’era la frase?

Aidan: “Non lasciare che ciò che è perfetto diventi nemico di ciò che è buono.”

 

Interessante…

Ian: Lui non ha mai amato le cose totalmente perfette, non ci ha mai fatto usare autotune o altri effetti del genere; per lui le cose dovevano semplicemente essere buone e se una qualche parte non lo soddisfaceva ce la faceva rifare per parecchie volte, e poi teneva la take che secondo lui era uscita meglio.

Aidan: Lo stesso discorso lo possiamo fare per quanto riguarda i concerti: all’inizio fare errori era motivo di ansia ma adesso, arrivati al quarto album, quando sul palco sbagliamo qualcosa siamo semplicemente consapevoli che fa tutto parte dell’umanità di quello che facciamo, e che noi e il pubblico siamo insieme in questo; non ci spaventa più fare errori, perché essi sono parte della natura e sia noi sia i nostri fan siamo parte di un’unica comunità. Approcciare con questa convinzione il lavoro in studio e quello sul palco è diventato molto importante per noi.

 

Questa cosa che dite mi dà lo spunto per la prossima domanda: la prima volta che vi ho visto dal vivo è stato all’Arci Bellezza, al tempo di A Way Forward, e ricordo di non aver mai ballato così tanto! Mi sono divertito tantissimo e credo che questo sia proprio da ricondurre alla componente umana del vostro sound di cui adesso parlavate. Parlando di live, mi chiedevo appunto quale fosse esattamente il rapporto tra quello che fate dal vivo e le tracce che, immagino inevitabilmente, avete pre registrate…

Ian: Cambia molto da canzone a canzone…

Aidan: Tendiamo ad avere il più possibile lo stesso suono che abbiamo in studio, io ho a disposizione quattro Synth e cerco di bilanciare le backing tracks con quello che suono, in modo da creare di volta in volta l’effetto giusto.

Ian: Quello che accade è che ogni volta che per una canzone ci troviamo ad usare solamente i Synth, ci sembra che il tutto sia un po’ troppo vuoto e allora aggiungiamo delle tracce per inspessire.

Aidan: Per raddoppiare il suono, per rendere più rumoroso l’insieme.

Ian: Diciamo che l’obiettivo è quello di avere il maggior numero di elementi possibile suonati dal vivo: a volte è facile, altre un po’ meno.

 

Non sarebbe però bello ogni tanto suonare delle versioni “stripped” di alcuni brani?

Ian: Ci abbiamo pensato ma credo funzionerebbe solo nel caso di session promozionali; sul palco non penso, siamo troppo dipendenti dall’energia che si sprigiona! Ci sono comunque alcune canzoni sul nuovo disco che vanno in quella direzione e che potrebbero anche essere suonate senza tracce registrate. Penso ad esempio all’ultimo pezzo, “Nights of Weight”, che è veramente molto scarno e che abbiamo deciso di tenere così proprio perché ci accade molto raramente di stemperare la potenza… e credo proprio che potremmo farla dal vivo, così come l’abbiamo registrata.

 

Una curiosità, già che siamo in tema di concerti: vi ho visti l’estate scorsa ad Ypsigrock e ricordo che a metà set Aidan ha ringraziato i ragazzi dell’ambulanza che ti avevano soccorso nel pomeriggio, che è successo? Colpa del caldo?

Ian: No, si trattava di un problema che avevo da qualche tempo: me ne sono accorto per la prima volta quando siamo partiti da New York ed eravamo sull’aereo, sentivo che qualcosa non andava per cui sono andato da un dottore in Svezia, dove abbiamo avuto la prima data, poi ne ho visto un altro ad Istanbul ma la cosa non migliorava. Non ho mai saltato un concerto ma una volta arrivato in Sicilia sono crollato (ride NDA)!

 

Tutto bene adesso?

Si, per fortuna sì, grazie!

 

Dal punto di vista delle relazioni avete un assetto particolare perché siete in tre e voi due siete una coppia: come la gestite questa cosa, soprattutto in tour?

Aidan: Beh, per prima cosa il fratello di Alex (MacKay, il bassista NDA) viene in tour con noi perché è il nostro tecnico delle luci e sicuramente questo è un fattore di bilanciamento per noi due che siamo una coppia. Poi c’è il nostro ingegnere del suono che è il coinquilino del fratello di Alex, quindi siamo una sorta di grande famiglia e sento che Alex è ormai diventato un fratello per noi. Passiamo ogni singolo giorno del tour insieme, io e Ian non stiamo mai solo noi due, separati dagli altri, ci sentiamo molto più a nostro agio così.

Ian: E poi c’è il fatto che amiamo tutti andare in tour, e che amiamo passare del tempo assieme. Ormai siamo in grado di leggere facilmente l’umore dell’altro, e questo ci rende più facile gestire le relazioni interpersonali, in modo che sia più facile lasciare del tempo ad un’altra persona se capiamo che ne ha bisogno.

 

Volevo chiedervi della scena musicale di New York perché l’anno scorso ho letto un’intervista ai Been Stellar che lamentavano come la città non sia più come quella che agli inizi del nuovo millennio ha dato vita a band come Strokes ed LCD Soundsystem: al momento sarebbe tutto molto più povero, tra chiusure di locali storici ed un’attività non più frenetica come prima. È effettivamente così?

Aidan: Credo che ci sia tutto un modo di idealizzare quel periodo e di filtrarlo con una visione romantica che non ha niente a che vedere con la realtà. Secondo me anche oggi c’è una bella scena: vado in continuazione ai concerti degli amici e tanti dei gruppi che si sono formati quando ci siamo formati noi sono ancora in giro, fanno dischi e suonano dal vivo. Oggi l’abitudine è quella di guardarsi indietro e di idealizzare quel periodo, pensando che quello odierno sia peggio ma secondo me non è così, ci sono ancora tanti gruppi e tanti concerti in giro. Probabilmente tra vent’anni scriveranno dei libri su di noi e la gente dirà: “Caspita che bello! C’era un fermento incredibile, erano sempre in giro per locali a vedere concerti!”. Sinceramente io adesso sono contenta!

 

Quando siete usciti col primo disco ricordo che in tanti dicevano che eravate una band giovanissima con riferimenti vecchi: dopotutto era chiarissimo che vi rifacevate a New Order, Human League e a quelle cose lì. Oggi si parla molto di questi giovani gruppi con influenze datate, penso anche ai Fontaines D.C. e ai Murder Capital, con i loro rimandi al Post Punk. Che cosa ne pensate? È un qualcosa su cui riflettete o, semplicemente, suonate quello che vi piace senza troppe storie?

Ian: Mentre facevamo il primo disco ci pensavo molto perché era quello che ascoltavo all’epoca e avevo fatto anche tutto un lavoro di ricerca per rendere i nostri suoni il più possibile vicini a quelli dei nostri modelli, volevo che i nostri riferimenti risultassero chiari a tutti. Oggi, dopo alcuni anni, utilizzare un sintetizzatore per scrivere una canzone è diventato naturale, ha a che fare solo con lo scrivere canzoni che funzionino. Come autore, l’unica cosa che cerco è utilizzare le mie conoscenze per trovare sempre nuovi modi per scrivere cose interessanti, cercando sempre di divertirmi in quello che faccio: per il momento devo dire che sta andando bene!

 

E tu Aidan? Hai gli stessi riferimenti di Ian oppure ti piacciono altre cose?

Aidan: Assolutamente no! Direi che siamo al 100% su cose diverse! Ogni volta che finiamo un pezzo dico: “Oh mio Dio, questa mi ricorda…” e nomino qualche band Indie dei primi anni Duemila. E lui allora: “Ma no! Non era quello che avevo in mente, io pensavo soprattutto a…” e fa il nome di una qualunque band Shoegaze degli anni Novanta (risate NDA)! È bello ascoltare musica diversa, perché queste influenze vengono filtrate nei nostri cervelli e nasce sempre qualcosa di interessante.

Ian: Nella misura in cui quello che viene fuori piaccia ad entrambi!

Aidan: Ovvio!

 

Ci vediamo il 23 novembre a Milano, ai Magazzini Generali!