Una carriera incredibile quella di Peter Frampton, con la ciliegina sulla torta della recente induzione (finalmente!) alla Rock & Roll Hall of Fame. Classe 1950, londinese, nasce con una smisurata passione per le sette note ed esordisce appena diciottenne con gli Humble Pie, cui fa seguito un’attività solistica piena di soddisfazione, nonostante un inizio difficile, il successivo raggiungimento della grande celebrità e poi ancora alti e bassi, con momenti di oblio in mezzo a lampi di luce.
Dopo alcuni dischi di grande qualità ma poco successo, arriva l’omonimo Frampton (1975) con due hit indimenticabili: quel piccolo capolavoro di “Show Me the Way” e l’irresistibile “Baby, I Love Your Way”, un soft rock dal ritornello di facile presa, e tutto improvvisamente cambia. Peter si sta lentamente costruendo la reputazione di grande performer non solo in studio, ma soprattutto sul palco, e il riscontro di quei singoli aumenta esponenzialmente nelle versioni live tratte l’anno successivo da un album che non ha bisogno di presentazioni: Frampton Comes Alive, una perfetta sintesi della musica e della magnifica atmosfera creatasi con il pubblico in alcuni show negli Stati Uniti.
Il chitarrista inglese tocca il cielo con un dito proprio grazie all’America, che negli anni diventa la sua seconda patria, tuttavia quel mitico doppio LP vende milioni di copie in tutto il mondo, rendendolo il più popolare live mai pubblicato. Immortale.
Raggiunto tale picco, ricominciano i momenti cupi sul finire della decade e proseguono negli Ottanta e Novanta fino all’inizio del secolo, quando, prima con Now (2003) e poi con Fingerprints, libero da ogni ansia commerciale e ormai consapevole dello status di guitar hero senza dover per forza dimostrarlo ogni volta, Frampton si sblocca, vive la sua rinascita artistica e realizza dischi basati solo sul suo estro, consapevole dell’importante ruolo avuto e pronto a mantenere acceso il fuoco dell’ispirazione sulla sua musica.
Per merito di Fingerprints, lavoro interamente strumentale intenso, gradevole e sincero, l’artista britannico torna agli inizi, con un duplice viaggio: un primo, personalissimo, alla riscoperta delle sue radici, a cavallo tra rock and roll, jazz, blues e chitarra classica. Si mette così sulle orme di band come Ventures e Shadows (“Float”, “My Cup of Tea”, con special guest proprio Hank Marvin, e “Smoky”), tanto amate in gioventù, e in sala d’incisione si sbizzarrisce nell’utilizzo di svariate chitarre, sia acustiche sia elettriche, usando pure l’E-Bow.
D’altronde, stiamo parlando di un personaggio che ha imbracciato la sei corde in ogni sua forma, dall’adorata Phenix, la mitica Gibson Les Paul Custom nera del 1954, alla Gretsch Duo Jet, fino alla Martin D-42 acustica, ed è d’uopo ricordare anche la sua “rivoluzione” grazie al talk box, per cui ha ideato un suo modello signature Framptone.
Il secondo itinerario conduce in territori molto diversi tra loro, dal soul di matrice americana a ritmi latini (“Ida Y Vuelta”, “Souvenirs de Nos Peres”), fino al consueto pop-rock, melodico, tuttavia ancora fresco come acqua di sorgente, come l’opener “Boot It Up” e il tenero bozzetto “Oh When…”.
Una buona parte delle canzoni inedite quali ad esempio “Shewango Way”, “Grab a Chicken (Put It Back)” e “Double Nickels” è firmata in coppia con Gordon Kennedy, prestigioso songwriter noto per essere tra i compositori della pluripremiata “Change the World” di Eric Clapton.
Il lungo periodo di preparazione dell’opera, durato circa tre anni, consegna un disco curato, profondo e “senza veli”, ove l’autore si mette a nudo e mostra tutte le sue influenze e in quale modo queste si siano evolute in una scrittura ed esecuzione eleganti. Frampton apre all’ascoltatore tutto il suo mondo, si potrebbe dire che lasci le sue personali “impronte digitali” prendendo a prestito il titolo del lavoro, scelto non a caso.
Un disco che si segnala anche per le proficue, illustri e insospettabili collaborazioni, come se si dovesse scartare un regalo inaspettato. Si va da Charlie Watts e Bill Wyman in “CornerStones”, con la partecipazione di Chris Stainton, mitico tastierista dei tempi di Mad Dogs & Englishmen di Joe Cocker, a Mike McCready con Matt Cameron per una struggente cover di “Black Hole Sun” e l’accattivante “Blowin’ Smoke”, senza dimenticare un prezioso duetto con un altro guitar god, Warren Haynes (“Blooze”).
Il sodalizio con colleghi così celebrati ha certamente contribuito a rendere il buon Frampton assolutamente entusiasta, felice di pubblicare un album davvero particolare, che aspettava di fare da tutta una vita. La sua carriera è continuata alla grande, con pubblicazioni di alto livello in studio e live. Da ricordare All Blues (2019) e il sorprendente Frampton Forgets the Words (2021), nel quale abbandona di nuovo il canto per concentrarsi completamente su arrangiamenti, armonie e fraseggi.
La chitarra come salvezza, medicina, iniezione di vita: nonostante la terribile diagnosi di miosite da corpi di inclusione (IBM), annunciata nel 2019, Peter Frampton è ancora in attività e in tour. Un Artista (e un Uomo) formidabile.

