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REVIEWSLE RECENSIONI
I’m Totally Fine with It Don’t Give a Fuck Anymore
Arab Strap
2024  (Rock Action )
IL DISCO DELLA SETTIMANA INDIE ROCK
8,5/10
all REVIEWS
27/05/2024
Arab Strap
I’m Totally Fine with It Don’t Give a Fuck Anymore
Gli Arab Strap hanno esordito quasi 30 anni fa, sono stati fermi 16 anni, ma da quando hanno ripreso sono più ispirati che mai. Il nuovo "I’m Totally Fine with It Don’t Give a Fuck Anymore" è orecchiabile, carico e rumoroso al tempo stesso, affrontando abissi, orrori e angosce del virtuale e del reale, e di come spesso divengano la stessa cosa.

Prima o poi qualcuno dovrà scrivere un libro su come i Social abbiano modificato anche la forma scritta del linguaggio, con maiuscole, minuscole e numeri usati a caso, in canzoni e nomi di band. L’ultima frontiera sembra ora essere l’emoticon come parte integrante del titolo, col dato ancora più sorprendente che a farlo sono stati proprio dei boomer incalliti come gli Arab Strap. Hanno spiegato di averlo chiamato così, il nuovo disco, da un messaggio del loro batterista, ed è a questo punto più che probabile che quei due pollici alzati che fanno capolino tra una frase e l’altra, siano stati già presenti nella comunicazione originale.

È importante? Assolutamente no, però è da un po’ di tempo che rifletto sul fatto che viviamo in un’epoca in cui la forma di ciò che diciamo e scriviamo sembra prendersi molto più spazio rispetto al contenuto stesso.

Com’era quella frase famosa, “Il media è il messaggio”? Vai a guardare, e scopri che la prima traccia di questo lavoro prende il titolo proprio da un testo di quel Marshall McLuhan responsabile della celeberrima citazione di cui sopra.

Gran parte del disco, se si scava ancora più in profondità, alla fine parla di questo: la nostra sempre più crescente difficoltà a capire che anche il virtuale è reale, e che se anche comunichiamo sempre di più senza incontrarci di persona e vederci in volto, ciò non significa essere autorizzati a scordarsi della nostra più autentica dimensione umana.

Disfunzionalità delle relazioni, in una società sempre più veloce e sempre più solitaria, dalla violenza cruda al riparo dello schermo di un computer, alla donna morta durante il Covid e scoperta solo mesi dopo, nonostante i vicini “avrebbero dovuto sentire l’odore”, l’ottavo disco della band scozzese è una piccola galleria di orrori e angosce, la prova lampante che “We built another world, but history and hate prevail”, per dirla con un verso del primo singolo “Bliss”.

 

Aidan Moffat e Malcolm Middleton rappresentano l’esempio perfetto che non è così sbagliato che una band si rimetta in attività, se ha effettivamente ancora qualcosa da dire e non ha solo in mente di rimpinguare la pensione. As Day Gets Dark è uscito tre anni fa (non sembra passato tutto questo tempo) e già si era capito che c’era un discorso in sospeso da riprendere, che lo stato di forma era quello dei vecchi tempi.

Qui siamo più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, con la differenza che nel mezzo c’è stato il tour per i 25 anni di Philophobia (in Italia li avevamo visti a Ferrara), affrontato in duo, senza la solita backing band, ragion per cui, dopo tanto scarno e crudo realismo, hanno sentito la voglia di riempire le frequenze e di fare un po’ di sano casino.

Siamo al cospetto della loro uscita probabilmente più carica e rumorosa di sempre, con le chitarre pesanti, quasi al limite del Doom, che aprono “Allatonceness” che costituiscono una novità assoluta nel loro repertorio e che in qualche modo dettano la linea per buona parte degli episodi successivi. Le scelte di arrangiamento e la produzione di Paul Wallace hanno infatti privilegiato l’adozione di un certo tipo di Wall of Sound, grazie a ritmiche ridondanti (in “Sociometer Blues” sono quasi Afrobeat, in “Strawberry Moon” ci sono partiture a la Underworld) e a tastieroni belli pieni, che ricordano un po’ le cose più elettroniche di John Grant (“Dreg Queen”, “Hide your Fires”).

In tutto questo, a balzare all’occhio è anche l’antitesi tra una componente Electro Pop e Dance molto più marcata che in passato, ed una cupezza di fondo che sembra quasi voler negare quegli stessi ritmi ballabili: da questo punto di vista, “Bliss” è allo stesso tempo sfacciata ma anche disperata, allo stesso modo di “Summer Season”, per certi versi aggiornamento di “Rocket, Take your Turn”.

 

È anche un disco, paradossalmente più orecchiabile degli altri, con hook melodici veramente azzeccati, a cominciare proprio da quella “Allatonceness” che pareva dovesse ricevere la palma della più spigolosa del lotto.

Quella componente Pop che sotto sotto a Moffat e a Middleton è sempre piaciuto rivangare, viene fuori nelle già citate “Strawberry Moon” e “Summer Season”, ma soprattutto in “Haven’t you Heard”, forse la più easy listening di tutta la loro carriera, e in “You’re Not There”, tenuta su dal piano elettrico, ritmica pulsante e una parte vocale che più indolente di così è impossibile.

E poi ci sono i richiami diretti al passato remoto, quello ubriaco e strascicato al limite dello Slowcore, con “Safe & Well”, totalmente acustica, glaciale nel suo spietato realismo, e “Molehills”, bellissima anche se per nulla sorprendente (un’outtake di Philophobia fatta e finita, specialmente quando nella seconda parte entra la batteria elettronica).

 

Insomma, qui c’è un gruppo che ha esordito quasi trent’anni fa, che è stato fermo sedici anni e che quando è tornato ha ripreso a scrivere in maniera forse addirittura più ispirata di prima. D’altronde gli Arab Strap hanno sempre avuto come punto di forza quello di raccontare il presente, di andare al fondo dei drammi dell’esistenza; invecchiare, da questo punto di vista, può servire a scrivere canzoni migliori.

Un ritorno che è tra i punti più alti della loro discografia, e quest’estate li rivedremo dal vivo dalle nostre parti.