In verità, fino all’ultimo ci ho sperato. Entrare all’Alcatraz e trovare la platea stipata di file di sedie ordinate - proprio come succede per i live jazz - e impadronirmi di un posto con una visuale libera a ridosso del palco in grado di risparmiarmi la distesa di smartphone in modalità rec che, delle esibizioni dal vivo, è sempre più la morte. Un premio meritato anche per il prudentissimo anticipo con cui mi sono presentato all’ingresso. Un’aspettativa avvalorata (solo in apparenza, come scoprirò di lì a poco) dall’età media del fan dei Kokoroko, sfegatati almeno quanto me, e degli amanti del jazz in paziente attesa all’ingresso abbondantemente prima dell’orario indicato. Per la cronaca, età media portata oltre i limiti di guardia anche grazie alla mia presenza.
Chi mai costringerebbe a far assistere due ore di jazz in piedi a signore distinte e vecchi di merda come me, ovvero l’idea del pubblico del jazz che ha chi non ascolta jazz. Che poi il jazz resti l’unico non-luogo dove capita ancora di incontrare giovanissimi - probabilmente addetti ai lavori, almeno è quello che trasmettono ad altri addetti ai lavori - che sfoggiano la cravatta a collo nudo sopra la maglietta è un dato di fatto. Da sempre, l’eleganza decontestualizzata per praticare la trasgressione alla trasgressione è l’eccezione che conferma la regola. Ma il jazz, e soprattutto le rassegne di jazz, hanno fortunatamente confini sempre più labili (e violati), e non è la prima volta che JazzMI trascende l’accezione di jazz (e meno male che Luciano Linzi e Titti Santini, i direttori artistici della rassegna che ha appena compiuto dieci anni, non si smentiscono mai).
Comunque, sedie o no, alla fine mi è andata di lusso. Primissima fila, abbarbicato alle transenne e in posizione centralissima in corrispondenza dei microfoni allestiti per la sezione fiati. Di certo i Kokoroko, la cui matrice è indiscutibilmente jazz ma in quella declinazione modernissima e molto africana che ne ha sancito il successo (se l’Alcatraz non era sold out ci è andato vicino), sono una band che solo un folle vorrebbe ascoltare da seduto, anche se la loro musica su disco, rispetto ai live, ha una gradazione di jazz decisamente meno ingombrante.
Il ritmo nelle tracce su disco è suonato per indurre al movimento. In concerto, il ritmo suonato per indurre al movimento si libera dei fardelli di una certa leziosità fusion e fighetta dovuta all’incantesimo della musica fermata da un registratore, a vantaggio di un groove molto più viscerale e primitivo (ma sempre suonato a livelli che noi umani bianchi non possiamo nemmeno immaginare) che si sprigiona quando, finalmente, l’incantesimo della musica fermata da un registratore si rompe e che, quando spinge sui tempi afrobeat (con tutti quegli accenti spostati sui quali solo i musicisti sul palco riescono a orientarsi tra battere e levare), o di raffinato funky (ciò che vent’anni fa, per darvi delle coordinate, chiamavamo acid jazz) e persino di jazz tradizionale (quello con il walking bass, la batteria suonata a swing e tutti gli altri crismi che vi rendono partecipi di un live jazz) manda il pubblico in visibilio.
Compresi quelli come me che si danno un tono perché, tutto sommato, il battere e il levare e la sfida alla ricerca dell’uno nella battuta si confermano gli elementi base di sopravvivenza anche al cospetto del jazz caldissimo, materno e avvolgente dei Kokoroko. Un ritmo che scappa inseguito dalla sezione fiati di Sheila Maurice-Grey (tromba e voce) e Richie Seivwright (trombone e voce) che armonizzano i loro temi sempre un po’ poco sedute sul beat ma con un risultato che, magistralmente, le allontana solo illusoriamente dal tempo. Con strumentisti di tale dimestichezza non si sgarra di una virgola, statene certi, e il problema è vostro, anzi mio, di noi cioè che contiamo da uno a quattro sul ritmo vincolati dalla banalizzazione che ne facciamo qui noi eurocentrici.
I Kokoroko si presentano sul palco alle 20.45 circa, un vero sogno, e chi ben inizia è a metà dell’opera. La scaletta scorre serrata, tra un brano e l’altro c’è giusto il tempo dell’attacco introduttivo, ma poi, in un paio di punti, il percussionista Onome Edgeworth e il tastierista Yohan Kebede si fermano per lunghe - e piacevoli - introduzioni ai brani e al progetto stesso. Confessano la gioia di suonare in Italia, a detta loro un posto più simile all’Africa dell’Inghilterra (vaglielo a dire ai difensori melo-salvinisti della razza), e ricordano i precedenti tour dalle nostre parti in cui, concerto dopo concerto, hanno assistito a una crescita graduale del pubblico sino al tutto esaurito di ieri sera.
In programma molti brani del nuovo album Tuff Time Never Last, qualche estratto da Could We Be More e dall’EP Get The Message uscito a cavallo tra i due dischi, più una straordinaria versione genuinamente highlife di “Love And Death” di Ebo Taylor e un momento davvero intimo, con l’esecuzione del classicone soul “Express Your Love” delle Sweet & Innocent.
Una scaletta con numerosi momenti strumentali, in cui anche il chitarrista Tobi Adenaike e, verso la coda, il batterista Ayo Salawu trovano più spazi per ispirati e trascinanti soli. Un concerto però in cui le voci e i loro magici intrecci (Sheila Maurice-Grey e Richie Seivwright, oltre a essere musiciste incredibili, sono anche cantanti straordinarie) costituiscono l’elemento di maggiore impatto e distinzione dal resto, persino quando il monumentale bassista Mutale Chashi, con il suo look da Malcom X, riesce a ritagliarsi qualche momento per dare il suo contributo al microfono.
La sensazione è che i Kokoroko, dal vivo, riescano ad aumentare le loro composizioni di una terza dimensione. I toni bassi e pulsanti, corredati da modernissimi timbri di synth, dalle note di chitarra suonata nell’inconfondibile stile afrobeat e dai temi eseguiti in modo impeccabile dalla sezione fiati, si completano egregiamente. Il suono si libra dal palco accresciuto senza soluzione di continuità dalla portata di un vero e proprio mare di piacevolezza che va a riversarsi sul pubblico, depositando sedimenti di ottime vibrazioni che si stratificano, brano dopo brano, sugli ascoltatori. Probabilmente uno dei migliori concerti a cui io abbia mai assistito. La musica e il jazz, ieri sera, più che mai hanno raggiunto il loro scopo.

