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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
03/11/2025
Bruce Springsteen
Nebraska '82: Expanded Edition
Nebraska '82: Expanded Edition non è nulla di imperdibile, anzi, il consiglio è di procurarsi l'originale e farvelo bastare, oltre che di occupare il vostro tempo con nuovi ascolti. Ma se volete una riflessione sul lavoro appena editato, a voi pane per i vostri denti.

Non ho letto Deliver me from Nowhere, il libro di Warren Zanes che racconta la genesi del disco, e non ho nessuna voglia di guardare l'omonimo film di Scott Cooper appena uscito nelle sale, con Jeremy Allen White nella parte di Bruce Springsteen. Non impazzisco per i biopic, nonostante alcuni siano fatti veramente bene, e tanto meno mi interessa vedere portata sullo schermo una vicenda che, mio parere personale, è già fin troppo patrimonio dell'immaginario comune per renderla addirittura un film.

Ogni tanto qualcuno mi legge, e chi mi legge sa benissimo che io ormai con Springsteen non ho più un bel rapporto. Tremendo, per certi versi, quello che è diventato, tristissima questa immagine da vecchia icona rock da dare in pasto a qualunquisti che della scena americana non conoscono nulla di nulla. Il successo su larghissima scala distrugge la dimensione artistica, non è una regola assoluta ma succede nel 99% dei casi, anche senza fare esempi so che chi ama davvero la musica la pensa come me.

 

Springsteen è invecchiato malissimo, non me ne frega nulla se ancora fa concerti memorabili, avrebbe dovuto pensionarsi dieci anni fa e saremmo stati tutti meglio, ma evidentemente il rendersi conto che da un viaggio non si può più chiedere nulla non è da tutti (lo so benissimo che ama ancora fare quello che fa, ma non può essere quello il punto. Arriva un momento in cui devi smettere, fosse anche l'ultima cosa che vorresti fare, e secondo me per lui quel momento è arrivato da un pezzo).

Non mi entusiasma neppure come sta gestendo la sua legacy, tutta questa storia delle edizioni speciali e dei cofanetti celebrativi che ormai, nell'era da necrofori nella quale viviamo, sembra essere divenuta di gran lunga più importante dei dischi nuovi. Tracks II mi ha fornito alcuni motivi di interesse, come sa chiunque abbia letto la mia recensione, ma ha anche aumentato le domande sul perché sia per forza necessario pubblicare qualunque cagata che si abbia in archivio, quale motivazione ci possa essere dietro il rilascio di versioni demo rimaste per decenni nei cassetti e che poco aggiungono alla versione originale conosciuta da tutti; quale altro motivo oltre alla mera sete di guadagno, ovviamente.

E così, a pochi mesi di distanza da quei Lost Albums che se non altro ci hanno regalato una manciata di canzoni notevoli, più una serie di episodi tutto sommato gradevoli, ecco arrivare la versione espansa dell'ultimo disco del nostro meritevole di tale trattamento (per la verità mancherebbe ancora Born in the USA, fondamentale più per storia che per meriti artistici, ma questo è un parere personale).

 

Superfluo dire qualcosa di Nebraska, lavoro di cui sono scritte tonnellate di pagine e che io stesso avevo raccontato tempo fa, quando ricorreva non so quale anniversario tondo.

Lavoro di passaggio tra The River e USA, con alcune delle canzoni di quest'ultimo già scritte e la pressione della Columbia che, dopo l'esplosione commerciale di “Hungry Heart” e il successivo tour nei palazzetti americani ed europei, premeva per un follow up che si muovesse sulla stessa linea, il trentatreenne Springsteen si chiude per qualche giorno nella sua casa di Colts Neck, in New Jersey, e registra un buon numero dei brani che ha in lavorazione in quel periodo. Alcuni di essi vengono provati con la E Street Band, ma si capisce presto che in questa veste non funzionano. Alla fine ne verranno scelte dieci, tutte suonate in solitaria e con pochissime sovraincisioni (furono fissate con un semplice registratore a quattro piste).

Fu un disco scarno, prettamente Folk nelle sonorità ma con qualche robusta incursione nel blues rock classico con cui amava incendiare le platee, con la differenza che le varie “Johnny 99”, “Open All Night” e “Reason to Believe” vengono tenute in piedi solo da chitarra e armonica, e la stessa cosa accade nell'epica “Atlantic City”, probabilmente l'unico episodio leggermente fuori fuoco in questa veste (non a caso troverà nuova vita nelle esecuzioni live con la Band).

Anche i testi, più profondi e colti del solito, conseguenza della scoperta di Flannery O' Connor e di un film come La rabbia giovane di Terrence Malick, che aveva a suo tempo già ispirato un classico come “Badlands”. La title track, racconto in prima persona, crudo e senza fronzoli, delle scorribande omicide di Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, esemplifica e allo stesso tempo sintetizza la visione del mondo cinica e senza appello sottesa ad ogni singolo brano qui contenuto (“They want to know why I did what I did/Well, sir, I guess there's just a meanness in this world” sono versi che fanno abbastanza gelare il sangue), riflesso anche di una condizione depressiva in quel periodo particolarmente accentuata.

Non piacque troppo alla Columbia ma fu salutato pressoché unanimemente come un capolavoro, e ancora oggi è probabilmente l'unico disco a godere degli apprezzamenti di chi considera Bruce Springsteen come un autore di serie B, sopravvalutato rispetto a nomi come Bob Dylan o Tom Petty.

 

Arrivati a questo punto, la butto lì: di un'edizione Deluxe di questo disco, non c'era granché bisogno. Pensatela come volete, ma io qui di roba imperdibile non ne vedo.

Andiamo con ordine: il primo cd è una raccolta di demo e outtake e probabilmente si tratta della sezione più interessante: fatto salvo che sono tutte cose che gli springsteeniani osservanti posseggono da decenni, ci sono versioni inedite di alcuni brani di Born in the USA (quella della title track era già apparsa su Tracks ma credo si tratti di un'altra take), che mostrano ancora una volta che cosa avrebbe potuto essere quel disco se il suo autore non avesse ceduto alle richieste del mercato. Oltre a “Downbound Train”, completamente diversa da quella che è finita sul disco, “Working on the Highway” era già poca roba ma se non altro, così scarna e senza troppi orpelli, funzionava decisamente meglio.

Gli inediti non sono roba da strapparsi i capelli e confermano quel che sospettavamo da tempo, almeno dall'uscita dell'edizione celebrativa di Darkness on the Edge of Town: i brani veramente grandi, quelli che se fossero finiti sui capolavori da Born to Run a The River li avrebbero addirittura migliorati, sono stati tutti pubblicati sul primo volume di Tracks, nel 1998. A meno di un qualche clamoroso errore di giudizio dovuto alla vecchiaia, il Bengodi è finito da un pezzo.

Le cinque tracce qui presenti vanno dall'inutilità totale (“The Big Payback” e “On the Prowl” non sono molto di più che standard rock) al tutto sommato piacevoli (“Losin' Kind” è una ballata dolce accompagnata da una chitarra arpeggiata, “Child Bride” utilizza un pezzo di testo che poi sarebbe finito su “Working on the Highway” mentre “Gun in Every Home” è senza dubbio il migliore dei tre, l'unico che non ricalca idee e melodie che sarebbero poi state utilizzate in altre canzoni). Non sono state inserite nella tracklist definitiva e oggi, a risentirle di nuovo tutte insieme, se ne capisce bene il motivo.

 

E veniamo al famigerato Electric Nebraska, il santo Graal degli springsteeniani, da decenni oggetto privilegiato dei loro desideri. Springsteen non provò con la band tutti i brani del disco (o se lo fece, non ne rimane traccia): gliene sottopose solo alcuni e ciò che qui viene documentato non è per nulla in grado di riscrivere la storia. Banalmente, le uniche canzoni che funzionano sono quelle che da anni vengono riproposte full band durante i concerti: la già citata “Atlantic City”, “Johnny 99”, “Reason to Believe” e “Open All Night”. Poi c'è “Nebraska”, i cui interventi riempitivi non spostano di un millimetro il risultato finale; stessa cosa per “Mansion on the Hill”, che peraltro nel Reunion Tour del 1999 fu eseguita esattamente in questo modo.

Le due restanti sono “Downbound Train”, buona ma ancora una volta inferiore a quella che finì sull'album, e “Born in the USA”, una performance in power trio che è forse la migliore in assoluto tra le innumerevoli variazioni sul tema pubblicate nel corso degli anni.

Da ultimo, l'esecuzione completa dell'album, canzone per canzone e in rigoroso ordine di scaletta, al Count Basie Theater di Red Bank, New Jersey: esibizione all'interno di un teatro vuoto, col bianco e nero delle immagini (questa parte è disponibile anche in Blu Ray) che valorizza il mood di generale malinconia e disperazione; una buona prestazione, che ha il suo maggiore punto di interesse nell'ascoltare queste canzoni eseguite da una voce carica di anni e di esperienze; ne esce un disco non rinnovato ma reinterpretato, con alcuni momenti decisamente toccanti.

Niente di imperdibile, insomma. Nulla, se non altro, che giustifichi un prezzo nuovamente fuori scala, anche se questa volta non proibitivo.

Volete un consiglio? Lasciate perdere. Procuratevi l'originale, se ancora non ce l'avete, e fatevelo bastare. Ascoltiamo i dischi nuovi e non perdiamo tempo e soldi con queste uscite da regno dei morti.