Chi segue da qualche tempo questo spazio sa bene (e se no lo imparerà oggi) che parlare di cinema non è nemmeno lontanamente il mestiere di chi scrive; quello che si fa qui, solamente per passione e senza remunerazione, è cercare di far innamorare qualcuno, fosse anche una sola persona, di qualcosa che si ritiene meritevole o, al contrario, tenere lettori ai quali ormai ci si è molto affezionati lontani da indigeste porcherie capaci di rovinar loro (come a noi) l’intera giornata.
Per far tutto ciò si è (quasi) sempre tentato, magari non sempre riuscendoci, di darsi un contegno e di cercar di fare le cose con una certa serietà e con un certo impegno, il tutto adoperando gli strumenti a nostra disposizione (passione, conoscenza, voglia, costanza) che per ovvi motivi non possono essere gli stessi che stanno nella faretra del critico professionista. Si cerca quindi, in poche parole, di far le cose per benino, nel rispetto della settima arte, dei lettori e anche del film di turno o dell’autore del giorno.
Ogni tanto però pare necessario dare una bella sterzata, ma mica per sempre, solo per una volta, per un momento, quando arriva l’occasione giusta e quando le condizioni lo richiedono o sono propizie. Allora si prendono la passione, la conoscenza, la buona creanza, la moderazione e tutte quelle cosine che anche voi conoscete per benino e le si butta tutte quante nel cesso. Ci si svuota anche la pancia e si tira lo sciacquone.
Tutto questo per dire che? Tutto questo per dire che il Queer di Luca Guadagnino è una grandissima rottura di palle. E dire che Guadagnino, almeno in riferimento ai film di cui abbiamo parlato (Chiamami col tuo nome, Challengers, Suspiria), ci è sempre piaciuto. E dire, ancora, che il film pare sia piaciuto quasi a tutti (ai critici almeno, perché al botteghino ha floppato alla grande).
Queer è l’adattamento del romanzo breve Checca, scritto da William S. Burroughs. Siamo negli anni Cinquanta a Città del Messico; Lee (Daniel Craig) è un americano espatriato. L’uomo, dal chiaro orientamento omosessuale e con qualche dipendenza dalle droghe, trascorre le sue giornate tra un bar e l’altro in cerca di incontri occasionali; nel giro è parecchio conosciuto e nel tempo si è costruito una cerchia di contatti all’interno dell’ambiente omosessuale locale.
Un giorno, in uno di questi locali, Lee mette gli occhi su un giovane americano di poche parole, l’ex militare Eugene Allerton (Drew Starkey). Poco a poco riesce a instaurare con quest’ultimo una sorta di relazione amorosa a due velocità. Mentre Lee sembra molto preso dal giovane, questi si comporta nei suoi confronti in maniera più scostante, dimostrandosi a volte distaccato e spesso nemmeno convinto che gli uomini siano realmente il suo desiderio primario.
Ciò nonostante Allerton, ancora nella fase iniziale della relazione, decide di accompagnare Lee in un viaggio in Sud America, un viaggio durante il quale Lee andrà alla ricerca di una fantomatica droga, lo yagè, la quale pare possa aprire le porte della percezione fino a donare doti telepatiche. L’esperienza sarà segnante per entrambi gli uomini, soprattutto per Allerton che deciderà infine cosa fare della sua relazione con il suo connazionale.
Ora, sono abbastanza convinto che William Burroughs non sia autore facile da adattare, per nulla. Ammetto di non aver letto il romanzo, Checca, dal quale Queer muove i passi, però di Burroughs tempo addietro lessi altro, esperienza che ora mi induce alla convinzione che l’autore non sia appunto semplice da trattare. Quindi, almeno su questo punto, onore al coraggio di Guadagnino che non si scelto un compito semplice, poi sembra che questo film fosse un suo chiodo fisso ormai da anni.
Il film non è esente da altri meriti; come detto da più parti abbiamo un Craig convincente e forse impegnato con quella che si può considerare la sua interpretazione migliore di sempre: né forzatamente rigida come richiesto dai suoi ruoli da duro, né sopra le righe in maniera idiota come in alcune sue prove pseudo comiche. Qui l’attore britannico sembra realmente stazzonato, stropicciato e sofferente, ossessionato come il ruolo richiede. Non male nemmeno il più algido Starkey, un’ottima coppia di protagonisti.
Inoltre ci sono i temi, le dilanianti prove dell’animo e del corpo (meriti questi più attribuibili a Burroughs che non a Guadagnino credo): l’ossessione, la dipendenza, il rifiuto di riconoscere la propria natura, lo scavo nell’inconoscibile, tutte tematiche profonde, anche sporche, trattate da Guadagnino con troppa pulita maestria, come se avessero sopra una patina lussuosa a coprirne la loro profonda natura viscerale. Dubito che la Città del Messico intesa da Burroughs potesse essere così artificiosa e vivibile come quella presentata in Queer (l’idea di girare tutto a Cinecittà… mah!).
Altra cosa… poi non so se è un problema mio, ma in tutto l’arco del film a me di questi due non è mai fregato nulla, non “li senti” mai, i temi sono tutti in testa, mai nel cuore, mai nella pancia, non colpiscono mai, nemmeno per un minuto (e non credo di essere uno spettatore insensibile, anzi).
Poi per carità, Guadagnino è un ottimo regista e continua a dimostrarlo, alcune soluzioni visive sono eleganti e azzeccate, più d’una in realtà, ok, ma dietro di esse che cosa rimane? Va bene il discorso sull'ossessione, sulla difficoltà di riconoscere la propria omosessualità, sul desiderio non corrisposto, tutte cose che dovrebbero far male e anche parecchio. E allora tutto questo dolore dov'è? Non vorrei si fosse perso tra una scelta della cromia da usare e una ricostruzione dei luoghi, tra un effetto ben riuscito e un movimento di macchina, tra un virtuosismo e un'inquadratura indovinata. Magari Queer non è neanche un brutto film ed è solo un film che ha dimenticato di sporcare le mani. C'è da dire che per lo meno fa venir voglia di tornare a Burroughs...