Ne è passato di tempo e lo sanno anche loro, l’espressione soddisfatta di Daniel Tompkins ad una manciata di canzoni dall’inizio dice tutto: dopo quasi cinque anni, addirittura sei se si conta l’ultima volta in cui si sono esibiti da headliner (nel 2019 erano inclusi nel bill del Rock the Castle) i TesseracT sono finalmente tornati a calcare un palco italiano.
Il Covid, a pensarci bene, non li ha penalizzati eccessivamente, visto che comunque il tour di Sonder lo avevano portato a termine; c’è stato probabilmente un rallentamento sulla scrittura del nuovo album, col gruppo che ha preferito investire sull’ottimo Portals, doppio live in studio che, oltre a riempire parzialmente l’astinenza da concerti dei fan, ha costituito un modo intelligente per fare il punto sui primi dieci anni di carriera, attraverso una brillante rilettura dei loro brani più importanti.
War of Being, ne ho parlato in sede di recensione per cui non mi dilungo, è stato un ritorno dalle proporzioni gigantesche, semplicemente il più bel disco realizzato finora dal quintetto britannico, ragion per cui non poteva esserci occasione migliore per rimettersi nuovamente on the road con un tour tutto loro.
Significativo è il fatto che, quando Tompkins ha chiesto al pubblico chi fosse al suo primo concerto della band, la stragrande maggioranza dei presenti abbia alzato la mano: gli anni di pausa hanno senza dubbio avuto il loro peso e, a giudicare anche dalla giovane età di molti, è abbastanza evidente che siano stati conquistati nuovi fan.
L’Alcatraz, locale scelto per questa unica data italiana, è già bello pieno quando arrivo sul posto, purtroppo perdendomi il set dei Callous Daoboys. Certo, l’allestimento è quello a capienza ridotta, col palco più piccolo posto sul lato lungo, ma l’affluenza è comunque soddisfacente, considerato che non siamo esattamente nel paese più ricettivo del mondo alle nuove proposte.
È un pubblico, come dicevo, mediamente giovane, in linea con un genere relativamente nuovo come il djent, e la partecipazione è già molto entusiasta durante l’esibizione degli Unprocessed, che effettivamente non sono dei novellini e che non hanno avuto granché bisogno di conquistarsi la platea.
I tedeschi sono arrivati al quinto disco (… And Everything in Between, uscito a dicembre) e la loro ricetta musicale non si discosta più di tanto da quella degli headliner della serata, alla fine anche loro sono perfettamente incasellabili in questa nuova ondata di band che include anche nomi più blasonati come Periphery (curiosamente passati dallo stesso locale proprio il giorno prima), Between the Buried and Me (anche loro li abbiamo visti qui, lo scorso anno) e Polyphia. La differenza, forse, sta proprio nel livello qualitativo: pur se tecnicamente inattaccabili, i cinque non hanno grandi risorse dal punto di vista compositivo per cui le loro canzoni, che a differenza di quelle dei colleghi qui nominati poco concedono alla melodia, seguono pedissequamente i dettami del genere senza possedere quel guizzo che possa invogliare ad approfondire il discorso.
Sono comunque quaranta minuti intensissimi, coi nostri che non si risparmiano e con gran parte del pubblico energicamente impegnato in mosh pit e crowd surfing vari.
I TesseracT arrivano dopo un rapido cambio palco che ha introdotto un fondale con l’ormai iconico cubo che dà il nome alla band e qualche led in più a decorare lo stage (in un concerto che sarà comunque all’insegna delle luci basse e di una componente visiva tutto sommato scura).
Partenza a mille con “Natural Disaster” ed “Echoes”, vale a dire i primi due brani del nuovo album, di cui nel corso della serata verrà suonata una metà abbondante.
La resa sonora è ottima, i volumi ben bilanciati, e come sempre la prestazione dei nostri è mostruosa: che il djent sia un genere che richiede notevoli capacità tecniche è un dato scontato, ma la perizia dei cinque nei loro strumenti, unitamente al tiro pazzesco dell’insieme, è comunque un qualcosa di cui tenere conto.
Jay Postones alla batteria è il motore attorno a cui ruota il tutto, la capacità disarmante di alternare tempi regolari ai poliritmi dà modo ai due chitarristi Acle Kahney e James Monteith di muoversi a loro piacimento e ricamare quelle tessiture intricate e spigolose che sono alla base del songwriting dei britannici. Su tutti svetta poi Daniel Tompkins, ottimo frontman e cantante decisamente di livello superiore, per come si destreggia tra growl e clean vocals con naturalezza estrema, ribassando solo leggermente alcune delle parti più ostiche, ma per il resto eseguendo il tutto con una padronanza dei propri mezzi che ha lasciato tutti a bocca aperta. È evidente, senza nulla togliere agli altri, che sia lui il valore aggiunto della band, che se l’è cavata bene anche durante la sua lontananza (Altered State, l’unico lavoro con Ashe O’Hara alla voce è senza dubbio un bel disco) ma che ha recuperato la sua dimensione ottimale solo quando è tornato in pianta stabile all’interno della line up.
Peccato solo per le tastiere in base e per qualche coro registrato, una soluzione che capisco dettata da motivazioni economiche (non facile portarsi uno o due musicisti in più sul palco) ma che in qualche modo “sporca” la resa live di un gruppo che ha proprio in questa dimensione uno dei suoi maggiori punti di forza.
La scaletta, ben bilanciata tra vecchio e nuovo, privilegia gli episodi di maggior impatto: “Of Mind – Nocturne”, “Dystopia”, la strepitosa “Legion”, con un Tompkins decisamente sugli scudi, la lunga ed articolata “War of Being”, i classici “King” e “Juno”, quest’ultima di gran lunga quella che ha beneficiato della risposta migliore da parte dei fan. C’è spazio, nei bis, anche per i primi due movimenti della suite “Concealing Fate”, primissima composizione del gruppo, che ancora oggi conserva intatto tutto il suo valore.
Non è stato lunghissimo (poco meno di un’ora e mezza) ma il livello di intensità e di concentrazione dell’insieme non avrebbe probabilmente permesso una durata maggiore.
Si può senza dubbio discutere su quello che davvero rappresenta il djent nella scena Metal contemporanea, si possono portare avanti diatribe tra presunti “puri” e fantomatici “poser”, ma quel che mi sembra indubbio è che i TesseracT siano in possesso di un’identità forte e di un valore artistico ben connotato, cosa che riescono a far emergere con forza anche nella dimensione live.
Speriamo di rivederli al più presto, magari in qualche data estiva.