Sono partito carico di pregiudizi sulla resa di un palco condiviso da due band sostanzialmente opposte come i Wombo e le Automatic. Da una parte l’ostile math-no wave sperimentale del terzetto guidato dalla cantante Sydney Chadwick. Dall’altra il più patinato indie post-punk della band di Los Angeles. Il punto è che quando si fronteggiano approcci diversi che, a loro volta, richiamano epoche differenti (quegli anni novanta degli opener che hanno spazzato via i primissimi ottanta delle headliner, entrambi portati all’estremo dalle due band in programma), si corrono rischi che possono risultare fatali.
Lo stile dei Wombo è elettrico e graffiante e la naturalezza con cui la voce riesce a muoversi sulle ardite dissonanze generate dalle parti di basso e chitarra richiede una predisposizione all’ascolto quasi agli antipodi di ciò a cui induce l’impiego dei synth di nuova generazione delle Automatic (ma programmati con suoni che rimandano a strumenti che hanno fatto la storia della musica elettronica) come principale e unica componente armonica. Due format che potrebbero anche avere pubblici differenti e che, peraltro, inducono a più di un luogo comune sull’efficacia che possano avere dal vivo.
Sono partito carico di pregiudizi, dicevo, ma mi sono dovuto ricredere. È stata decisiva la location, innanzitutto. L’ARCI Bellezza è l’ideale per questi salti nel tempo e, tra la musica, l’atmosfera della sala concerti e le persone che la frequentano, perdere l’orientamento è un rischio che si corre con spensieratezza.
Molto azzeccato anche il setting delle due esibizioni, perfettamente in linea con le relative proposte musicali. Luci essenziali e statiche per i Wombo, una band che probabilmente non saprebbe che farsene degli effetti speciali sul palco, a differenza dei giochi di fari colorati per le Automatic. Senza contare l’avvio delle esibizioni di entrambi, complice però l’ordine in cui si sono susseguite. Aspetti dai quali deriva anche la rispettiva relazione tra palco e ascoltatori in platea. Sydney Chadwick, pur con toni talvolta impercettibili, introduce i brani e instaura un dialogo con le prime file. Izzy Glaudini e Halle Saxon, invece, non si perdono in chiacchiere. Comunque, l’impressione che parte del pubblico (il Bellezza non era sold out come avrebbe meritato, purtroppo le condizioni meteo hanno fatto la differenza) si sia alternato sotto il palco e dentro/fuori tra sala e bar durante il live si è avuta.
I Wombo suonano circa tre quarti d’ora, presentando una setlist incentrata, come è giusto che sia, su Danger in Five, il nuovo album pubblicato la scorsa estate. Musica, come sappiamo, tutt’altro che facile ma che non lesina tentativi di inclusione. Il merito, dal vivo, va riconosciuto al drumming coinvolgente e preciso di Joel Taylor che, grazie anche a un’acustica non ineccepibile, sovrasta il resto degli strumenti trascinando piacevolmente (ma forse involontariamente) il pubblico. La tagliente chitarra di Cameron Lowe dilaga senza pietà negli interstizi armonici lasciati scoperti dagli inconsueti giri di basso di Sydney Chadwick (e comunque cantare e suonare il basso in quel modo, per me, resta un mistero che ha del miracoloso).
L’intervallo per la sostituzione degli strumenti e la sistemazione del palco favorisce il trasporto tra un’era e un’altra, una sorta di passaggio dalla tv in bianco e nero a quella a colori. Un Moog e un Prophet ora dominano la scena e la batteria scrausa (ma rock) dei Wombo lascia spazio a un modello fighissimo e tutto trasparente corredato di pad elettronici di chi è pronto a cominciare. Le luci fisse sul palco, ora inondato di fumo, si spengono, e le Automatic fanno la loro apparizione.
Anzi, gli Automatic. Appena si diradano le nebbie noto, proprio seduto dietro la batteria, lo stesso capellone alto due metri che mi si era piazzato davanti mentre assistevo al live dei Wombo, insieme alle altre due componenti della band. Non pensavo fosse un musicista. Ma il punto è che fine ha fatto Lola Dompé. Perché non è in tour con le sue compagne di avventura?
L’inserimento del batterista (spero un turnista temporaneo) non impatta sul suono caratteristico del gruppo, anche se in alcuni punti risulta troppo elaborato rispetto al drumming essenziale presente sui dischi e che il genere in questione reclama. Il trio temporaneamente non tutto al femminile esegue le canzoni dell’ottimo Is It Now? alternate a estratti dei precedenti e più minimali Excess e Signal, soprattutto verso il finale. I brani riflettono la stessa struttura delle incisioni e, in alcuni casi, il ricorso a basi ritmiche e non solo ne imbriglia purtroppo l’esecuzione.
Nell’insieme un’esperienza piacevole, nonostante lo standing di Glaudini e Saxon, forse un po’ condizionate in eccesso dai cliché del loro stile, dall’affluenza tutt’altro che record di pubblico e dalla necessità di non tirare tardi. È la cantante/tastierista stessa ad annunciare che i tempi sono stretti a causa del successivo concerto a Praga e del relativo trasferimento a cui devono provvedere di lì a poco.
Ne deriva un’esibizione un po’ risicata e sfuggente, appena cinquanta minuti di musica che, per un complesso che ha all’attivo tre album, è decisamente molto poco. Giunge così il momento in cui Halle Saxon si sfila il basso dalle spalle e si mette al synth per suonare alla tastiera la sua parte di “Mercury”, il brano conclusivo in programma, al cui termine l’immediata accensione delle luci di sala e l’avvio della musica di arrivederci proposta dalla regia (“Souvenir” degli OMD, scelta più che perfetta) non lascia dubbi su quello che i fan sono tenuti a fare. Bis, quindi, non pervenuti.
Attendiamo così le Automatic (questa volta solo donne e al completo) per un live più corposo e in condizioni più adeguate alle loro aspettative. I dischi sono molto belli, il pubblico è affezionato, le premesse ci sono tutte.

