I Nation of Language tornano a Milano dopo tre anni, per l'unica data italiana a supporto del nuovo disco Dance Called Memory. Col precedente Strange Disciple li avevamo visti in situazioni differenti, a Torino in apertura agli LCD Soundsystem e poi ad Ypsigrock, dove nell'ultima giornata avevano condiviso uno slot da co-headliner con i Beach Fossils.
Mancava dunque uno show tutto loro nel nostro paese, ed è significativo che a questo giro la venue prescelta sia più capiente rispetto all'Arci Bellezza, dove li avevamo visti l'ultima volta. Positiva anche la risposta del pubblico, col locale bello pieno nonostante la coincidenza col derby calcistico di Milano e con la prima delle tre serate de I Cani all'Alcatraz: significa che abbiamo buone possibilità per vederli anche in futuro e, come hanno detto loro poco prima della fine: “Se vi siamo piaciuti ditelo ai vostri amici e magari la prossima volta torneremo per più date!”.
In apertura, graditissima sorpresa, ci sono i bolognesi Leatherette, semplicemente una delle più belle realtà italiane degli ultimi anni.
A fine settimana pubblicheranno Ritmo lento, il loro terzo lavoro in studio, sempre per la nostrana Bronson Recordings, e possiamo anticipare che si tratta di un disco per certi versi spiazzante, dove hanno provato a incorporare nuovi elementi e a discostarsi un po' dalla loro solita formula di stampo Post Punk (sebbene, bisogna dire, l'abbiano sempre portata avanti con freschezza e personalità).
Stasera arrivano un paio di anticipazioni (“Hey There” e “Lovers Drifters Foreigners”, caratterizzate da una maggiore apertura melodica rispetto alle cose del passato) ma il grosso del set è ancora incentrato sul vecchio materiale. Potenza da vendere, tiro a profusione, strutture oblique e a tratti dissonanti, come in un improbabile incrocio tra Fall e Black Midi; chitarre infuocate e un sax che fa il bello e il cattivo tempo, nonostante sia tenuto ad un volume eccessivamente basso.
Hanno suonato tantissimo (anche all'estero) e si vede. Al momento i Leatherette se la giocano con chiunque e, se si riuscisse a guardare al di là del solito It Pop e dei nomi più conosciuti, si scoprirebbe che anche dalle nostre parti esistono realtà di primissimo livello.
Spazio ora ai Nation of Language: la band di Brooklyn negli ultimi anni è cresciuta molto ed ha saputo oltrepassare, senza tuttavia abbandonarlo del tutto, il Synth Pop di scuola Human League/New Order che caratterizzava soprattutto l'esordio Introduction, Presence.
L'assetto dal vivo è sempre il solito, con Ian Richard Devaney che sembra decisamente cresciuto come frontman, più sicuro ed espressivo nella prova vocale, maggiormente in grado di tenere il palco quando non impegnato con la chitarra. Alex MacKay è il vero motore dello show, anche perché con l'utilizzo della batteria elettronica che i nostri fanno da sempre, è il basso ad avere il compito di spingere e di modellare via via la dinamica dei vari brani. Aidan Noell sta dietro i Synth e gestisce tutto l'aspetto elettronico, dalle sequenze alle parti effettivamente suonate dal vivo, fino a qualche sporadica incursione alle seconde voci.
Il risultato è come sempre ottimo, e anche se chiaramente non potranno mai avere la “botta” di una band che non si affida così pesantemente all'elettronica, risultano ugualmente piacevoli e divertenti, grazie ad una scrittura che privilegia melodie catchy e ritmi altamente ballabili.
L'unico punto leggermente problematico, se proprio dobbiamo soffermarci su qualcosa che non ci ha troppo convinto, è il poco spazio riservato ai brani del nuovo disco all'interno della scaletta. Ce ne sono cinque su dieci e di per sé potrebbero anche non essere pochi, ma se pensiamo alle diverse soluzioni stilistiche qui adottate e alla generale evoluzione in esso riscontrata, avremmo desiderato sentirne di più. A maggior ragione quando si pensi che gli episodi più atipici, come l'opener “Can't Face Another One” e la ballata crepuscolare “Nights of Weights” posta in chiusura, non sono state eseguite. L'impressione è che, al netto dell'ottima resa delle varie “I'm Not Ready for the Change”, “Inept Apollo”, “Under the Water”, i tre si siano resi conto che, per costruire uno spettacolo il più possibile diretto e coinvolgente, avrebbero dovuto affidarsi ad episodi già consolidati.
Non è un caso che l'ossatura del concerto sia stata costituita ancora una volta da “Rush & Fever”, “On Division St”, “September Again”, “The Grey Commute”, “This Fractured Mind” e ovviamente “Across That Fine Line” (che resta ancora, bisogna ammetterlo, il loro brano più incisivo in sede live), con una manciata di episodi dal disco precedente (“Strange Disciple”, “Spare me the Decision”, “Weak in your Light”, l'inattesa “Stumbling Still”) che stanno ormai facendo breccia nel cuore dei fan.
Insomma, un ottimo concerto, ma se una band al quarto disco, in piena rampa di lancio, sente il bisogno di ricorrere ancora così tanto al repertorio più datato, significa, almeno a mio parere, che qualcosa non sta funzionando del tutto.
Resta il fatto che i Nation of Language si confermano un'ottima realtà, in grado di allargare il proprio consenso e di offrire uno spettacolo all'altezza delle aspettative del pubblico che viene a vederli. Per tutto il resto, sempre che sia effettivamente un problema, c'è tutto il tempo...

